Un suicidio in media ogni 16 ore che passano e un tentato suicidio ogni 14. Questi sono i dati allarmanti che emergono dall’Osservatorio Suicidi della Fondazione BRF – Istituto per la Ricerca in Psichiatria e Neuroscienze. Sono 595 i suicidi e 598 i tentati suicidi dal primo gennaio al 31 dicembre 2022, secondo l’Osservatorio BRF. La Fondazione BRF, per via della mancanza assoluta di dati aggiornati, ha istituito già durante la prima ondata della pandemia un Osservatorio Suicidi, monitorando gli atti suicidari in base a un’attenta analisi delle notizie di cronaca, locali e nazionali. I dati ovviamente sono al ribasso basandosi soltanto nel monitoraggio sulle notizie di cronaca, ma ben sottolineano come il fenomeno sia assolutamente drammatico e di stringente attualità. E che servono adeguate politiche di prevenzione del suicidio che coinvolgano tutti gli attori in gioco, dagli psicologi agli psichiatri, dagli insegnanti alle famiglie.
Non bisogna dimenticare, peraltro, che il suicidio ha un’incidenza particolarmente grave tra i giovani. Nonostante l’impegno e l’azione di alcuni singoli parlamentari, a riguardo poco è stato fatto nel corso dell’ultima legislatura. L’auspicio è che le forze politiche di questo parlamento, al di là delle promesse e dei proclami, affrontino concretamente la questione.
Non si deve, inoltre, trascurare un altro aspetto fondamentale: sono sempre di più i giovani e giovanissimi che ricorrono ad autolesionismo e talvolta scelgono di compiere atti estremi per le ragioni più disparate come lo sono una lite in famiglia, o un cattivo rapporto con i compagni di scuola. Tra i più recenti casi ricordiamo il tredicenne campano, che si è ucciso in seguito ad atti di bullismo che alcuni coetanei mettevano in pratica regolarmente: gli adolescenti in questione sono adesso in comunità e sono indagati per istigazione al suicidio.
Il maggior numero di suicidi si è registrato al Nord (223), seguito dal Sud (221) e infine dal Centro Italia (151). Per i tentati suicidi, invece, spicca il Centro Italia, seguito dal Sud e dal Nord (115). Ma al di là delle piccole differenze è evidente dai numeri come il fenomeno sia drammaticamente diffuso e tocchi la nostra intera Penisola.
Ma al di là della diffusione per classi di età, le due categorie più a rischio rimangono comunque i detenuti e le forze dell’ordine.
Da gennaio a dicembre 2022 si sono registrati 84 suicidi all’interno delle carceri italiane. 78 di loro erano uomini, cinque donne (le donne sono circa il 5% della popolazione carceraria), un suicidio ogni cinque giorni. Spesso le pessime condizioni e il sovraffollamento che i detenuti sono costretti ad affrontare incidono sulla salute mentale e la mancata attenzione porta a tentativi di suicidio che in molti casi sono stati portati in fondo.
L’associazione Antigone, che si occupa di questo fenomeno in particolare, ha definito il 2022 l’anno nero, in quanto i suicidi sono aumentati nonostante il numero dei detenuti sia diminuito rispetto agli anni passati e si è superato il precedente record negativo del 2009, quando furono in totale 72. Tra le persone detenute che si sono uccise nel 2022, secondo i dati forniti da una relazione del Garante nazionale, 33 erano riconosciute con fragilità personali o sociali, cioè senza fissa dimora o con disagi psichici. Quarantanove persone si sono uccise nei primi sei mesi di detenzione e di queste 21 nei primi tre mesi dall’ingresso nell’istituto. Quindici si sono suicidate nei primi dieci giorni di detenzione, nove nelle prime 24 ore dall’ingresso. Tra le persone che si sono uccise, cinque sarebbero uscite dal carcere entro l’anno in corso e 39 avevano una pena residua inferiore a tre anni. Solo quattro avevano una pena residua superiore ai tre anni e uno solo doveva scontare ancora più di 10 anni.
Sono numeri che rispecchiano la situazione di disfunzione in cui si trovano gli istituti di pena, che non riguarda solo chi è ristretto ma anche chi ci lavora: negli ultimi dieci anni si sono suicidati 69 agenti di polizia penitenziaria. Numeri di un fenomeno drammatico di cui la politica non si occupa e che i cittadini preferiscono non vedere.

I detenuti vivono in condizioni sempre più pesanti e drammatiche ed aumentano quelli con problemi di fragilità, di salute mentale, marginali, poveri. Le offerte lavorative e formative sono davvero poche e sono ridotte per durata e continuità.
Anche l’aspetto dell’affettività contribuisce. I carcerati sono privati della libertà ma anche delle relazioni parentali, della genitorialità. Per questo ci vorrebbero luoghi e spazi dove le persone possano vivere le loro relazioni affettive in modo quanto meno dignitoso.
E poi c’è il tempo, che in cella è vuoto e senza significato. La prospettiva di non fare niente tra le mura del penitenziario è devastante e lo è anche la mancanza di aspettative quando si esce.
Non a caso i suicidi avvengono per lo più nel periodo immediatamente successivo alla carcerazione, segno della difficoltà di vivere in ambienti piccoli, sovraffollati, senza servizi igienici, con sconosciuti, e nei mesi che precedono la libertà, sintomo del disagio di fronte al non sapere cosa fare e dove andare, una volta fuori.
Per prevenire i suicidi in carcere e i tantissimi comportamenti autolesionistici bisogna creare condizioni di vita dignitose e riempire il tempo di significato, con attività di socializzazione come il teatro per esempio, e offrendo lavoro, che sia lavoro vero però, riconosciuto e retribuito, che serva alla persona per promuovere la sua identità e reinserirla nella società e non che abbia una funzione di supplizio o redenzione.
Il complicato ambiente carcerario pesa sui detenuti come anche sulle guardie penitenziarie. La condizione della persona ristretta e quella dell’operatore sono difficili da distinguere, vivono entrambi in una situazione totalizzante. Spesso il poliziotto penitenziario vive il carcere anche fuori dall’orario di lavoro, perché portato a centinaia di chilometri di distanza da casa, senza famiglia, trascorre il suo tempo dentro l’istituto come se fosse un recluso. E chi ha un disagio non lo può neppure denunciare, perché cerca di evitare lo stigma dei colleghi, teme di essere additato come il soggetto debole, il fragile. Non è che il poliziotto abbia una configurazione particolare che lo porta al suicidio, non è il mestiere che lo spinge a togliersi la vita. Piuttosto si può affermare che nel momento della perdita di lucidità, del picco del disagio, avere un’arma a disposizione può fare la differenza. E questa arma il lavoratore se la porta sempre con sé, non se può mai separare, né riporla in sicurezza.
C’è poi il problema della cronica carenza di organico che costringe i lavoratori a turni insostenibili, da 9 fino a 12 ore al giorno. E a ricoprire tanti ruoli diversi, dai servizi centrali al ministro di culto, dall’educatore al mediatore culturale.
Oggi si contano 35 mila operatori di polizia penitenziaria, su una previsione organica di 41 mila: la legge Madia ha di fatto depauperato il 30 per cento del personale. Ogni anno, a fronte dell’uscita di 1.100 dipendenti, ne entrano 200. E tra 2 anni 8 mila operatori assunti per concorso nel 1992 andranno in pensione. Questo vuol dire che tra due anni mancheranno all’appello 16 mila unità, situazione che comprimerà ancora di più la vita dei lavoratori e delle lavoratrici.
Ma l’amministrazione penitenziaria dispone di pochissime risorse per il supporto psicologico dei carcerati e ancora meno per i lavoratori, oltre al fatto che per chi vi ricorre è difficile proteggere la privacy. Da parte di sindacati ed associazioni si continuano a denunciare deficit, carenze logistiche, ambienti fatiscenti. Si preparano documenti, si scrive al ministero della Giustizia per chiedere la messa in sicurezza degli istituti e tutelare il personale oggi stremato e demotivato, ma c’è sempre un problema di risorse che non sono disponibili.
Mino Dentizzi

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