«Un racconto di un decennio di ex ventenni, un campione rappresentativo di una delle poche realtà che negli anni ’80, soprattutto in Molise, si era tuffata a capofitto nella militanza politica. La curiosità di riscoprire “come eravamo” si mescola a quella di scoprire cosa è rimasto di quello antico impegno politico, della genuina passione civile e della splendida militanza politica in noi sulle soglie dei sessant’anni».
È così che Giovanni Russo Spena che di “Giovani ribelli e sognatori “– edito da Casa del Popolo – ha curato la prefazione cesella l’impegno portato a termine dai quattro amici: Antonio D’Alò, Fabio Lemme, Angelo Lamelza, Domenico Vitulli di ricordare, insieme ad Italo Di Sabato – senza rigurgiti nostalgici né compiacimenti narcisistici – quel loro spicchio di giovinezza trascorso vivendo l’impegno attivo della partecipazione politica.
In effetti negli anni ’80 il mondo stava già cambiando e non proprio in meglio. Gli anni d’oro del cosiddetto miracolo economico in cui grazie ad una forte produzione industriale di riconosciuta qualità – ottenuta utilizzando manodopera a basto costo salariale – aveva conquistato il mondo tanto che una giuria internazionale aveva attribuito alla moneta italiana, alla nostra povera, vecchia e cara lira, l’Oscar della moneta più salda tra quelle del mondo occidentale, avevano cambiato le abitudini della gente che poteva permettersi più cose di quelle delle quali aveva fatto uso in precedenza arrivando ad assaporare finanche il piacere del superfluo. Gli anni ottanta – dicono i protagonisti di quell’epoca – sono: «L’età del sentimento e del privato, della citazione e dei media, della fine dell’ideologia, il tempo del glamour e dell’ottimismo. È un mondo che si autocelebra nell’effervescenza lucida del trucco della neo televisione, nei muscoli tonici di una seduta di aerobica, nei riti del divertimento collettivo, la discoteca, la vacanza esotica, il look che rimescola tutti i vecchi stili e inventa nuove identità urbane, nell’amore per il superfluo, nella febbrile curiosità per le nuove meraviglie tecnologiche, nel pulsare degli schermi del personal computer. Sullo sfondo, il tramonto dell’assalto al cielo con il quale si era costruita la marcia in avanti».
Nella piccola Palata impoverita dall’emigrazione come del resto l’intero Molise, i giovani militando in Democrazia Proletaria, guardano avanti con occhi che travalicano i confini geografici. Le discussioni che li tengono impegnati fino allo sfinimento, i progetti, gli orizzonti condivisi non rispondono all’obiettivo di coltivare l’orticello, semmai alimentano il sogno di un mondo nuovo le cui radici potrebbero attecchire proprio partendo dal loro piccolo centro. Un mondo libero dagli armamenti nucleari, no global, che bandisce lo sfruttamento economico sociale e culturale dei Paesi più deboli; un mondo nuovo al cui interno tutti insieme si concorre alla costruzione del bene comune. Sono ragazzi poveri in canna, figli di gente che conosce e si attiene alla modestia, giovani senza mezzi economici ma, animati da quel tipo di caparbietà capace di produrre miracoli, insomma si ingegnano in ogni modo pur di arrivare a far circolar le loro idee e conquistare risultati e proseliti. A Palata occupano una sede così angusta da dover fare i turni quando si riuniscono per discutere di politica, e i problemi, i fermenti, le idee, la concretezza delle proposte oltrepassano l’uscio e si propagano nella piazza contaminando anche i più scettici rispetto all’affidabilità dei loro progetti. Realizzano striscioni, ciclostili, manifesti. Presidiano le fabbriche trascorrendo intere nottate con gli operai che lottano per difendere salari e posti di lavoro. Procurandosi mezzi di fortuna viaggiano, partecipano agli appuntamenti politici nazionali di Roma e Milano testimoniando che il Molise c’è e, maturando al tempo stesso esperienze che alimentano il confronto, determinano la loro crescita in campo sociale e politico. A Sigonella protestano contro la Nato e gli insediamenti di armi nucleari e fanno sentire la loro presenza anche nella crisi diplomatica tra Craxi e Reagan. Il paese, Palata, a poco a poco li accoglie. La gente ascolta le ragioni delle loro proteste, non li considera inutili sognatori e incomincia a partecipare, e per quanto possibile a sostenerli anche economicamente. Nel periodo in cui l’acqua non sgorga più dai rubinetti di casa tutti insieme danno vita ad un comitato di lotta che protestando sotto la sede della Regione ottiene giustizia del diritto negato.
“Giovani ribelli e sognatori” oltre che un libro storico scritto con stile accorto quanto agile, è un diario che cattura il lettore che scorrendo le pagine si immerge nella narrazione di un percorso generazionale mai altrimenti narrato né tantomeno celebrato. Frutto di un lavoro collettivo esso assolve l’impegno di colmare un vuoto di gestione documentale di ampio valore sociale. Ripercorrendo fatti ed avvenimenti di allora sia in campo nazionale che internazionale, alcuni oltremodo drammatici e misteriosi, ci accorgiamo che essi costituiscono le pagine più dolorose della nostra storia collettiva. Avvenimenti che dopo la bufera provocata da tangentopoli abbiamo fatto in fretta a dimenticare. «La pietà è assassina se perdona coloro che uccidono» scrive Shakespear e il nostro malinteso senso della pietà favorito da una procurata distrazione edonistica ci ha consentito di assolvere una intera classe politica colpevole di abusi e misfatti mai completamente chiariti consentendo la nascita di una cosiddetta nuova repubblica con radici comportamentali, in quella passata dalla quale, sono comunque stati ereditati metodi di un’illegalità tutt’ora praticata.
È un libro che rappacifica i genitori ai figli. I primi preoccupati dell’avvenire di quella generazione che sfuggiva al controllo paterno alla quale non si chiedeva altro che procurarsi «una donna e un impiego in banca» impaludati com’erano nella rassegnazione del «munne eva e munne è» e loro, i giovani, protesi nel liberarsi dal giogo dell’oppressione e della dipendenza dal potente di turno. «Noi siamo stati questo – dicono i quattro amici di Palata – abbiamo sempre privilegiato la nostra fantasia. Una liberazione dalle ipocrisie, dalle retoriche, dal dominio opprimente del “senso comune” di tutto quell’insieme di sensi e vincoli che finiscono per intrappolarci nell’immobilità dell’ordine costituito. Questa ricerca di “liberazione” che ha chiamato in causa tutte le nostre risorse e ci ha coinvolto in tutto il nostro modo di essere e di pensare, ci ha fatti sentire anche isolati perché non abbiamo accettato le risposte molte volte semplici e consolatorie di cui si nutriva e si nutre ancora tutt’oggi la politica corrente.
Il potere ha sempre questa forza corrosiva, livellatrice, e tende ad appiattire le differenze, a svuotare tutti gli spazi di autonomia. Nell’attivismo politico abbiamo visto all’opera questa logica, questo meccanismo ed abbiamo cercato di immettere nella politica le risorse di una libera partecipazione».

Vittoria Todisco

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