Non è facile ricordare Biagio Galletta. Non lo è perché è difficile metabolizzare che sia stato strappato alla vita così prematuramente e improvvisamente.
Biagio fu la prima persona che conobbi quando arrivai al Tribunale di Larino e dal quel giorno nacque tra noi un’amicizia che ci avrebbe legato per sempre, un legame che la morte non può spezzare. Di lui potrei dire tante cose, narrare tanti aneddoti delle nostre quotidiane frequentazioni, ma c’è una sintesi che ben esprime la sua figura: era un uomo perbene, buono e generoso. Può sembrare una definizione banale o quantomeno desueta in un’epoca in cui le valutazioni sono normalmente ancorate ad altri parametri, di tipo economicistico e produttivistico, ma Biagio del vivere onestamente, al servizio degli altri e degli ultimi, nel rispetto di valori vissuti come supremi, quali lo Stato, la famiglia e l’amicizia, faceva proprio la sua ragione esclusiva di vita.
Per lui fare il Carabiniere non era un esercizio di autorità, ma un servizio alla comunità. Di fronte ad un’infrazione cercava sempre, in un mondo ossessionato dalla sanzione, di capire il disagio che portava alla condotta antiprecettiva. Il risultato era allora raggiunto ove l’errante avesse capito il suo errore, aderisse alla corretta regola di comportamento, non gli importava fare statistica con l’irrogazione di una punizione.
Non aveva orario di lavoro, andava avanti finché necessario. A Larino stava sempre tra la gente, perché sosteneva che la società dovesse avvertire la presenza dello Stato, che sentiva orgogliosamente di rappresentare con la sua divisa e i suoi ammonimenti burberi, ma paterni.
Anche negli uffici giudiziari era una presenza fissa, si metteva a disposizione di noi magistrati, del personale, di chiunque entrasse al palazzo di giustizia con un problema che trovava il modo di risolvere. Spesso mi chiedeva consigli di tipo giuridico inerenti le sue attività, nell’Arma prima, nell’Amministrazione comunale di Casacalenda poi, ma in realtà era lui che offriva a me lezioni di diritto, perché aveva una qualità fondamentale di chi deve prendere decisioni e che anche noi giudici talvolta rischiamo di travolgere con il nostro tecnicismo: il buon senso.
Biagio avvertiva intimamente che dietro i procedimenti vi fossero le persone, con le loro ansie, le loro paure, le loro speranze, che il giudizio non fosse un gioco, ma la ricerca di una soluzione giusta per la vita degli altri. Per questo, ripeteva sempre, la concreta regola giuridica non doveva mai condurre ad esiti irragionevoli o iniqui, il diritto non poteva essere scisso da un senso di giustizia sostanziale, la pena non doveva ridursi a pura afflizione. Era il suo istinto, il suo innato senso di comporre i contrasti secondo un’umanità che spesso nei nostri ruoli abbandoniamo.
Biagio era un uomo delle istituzioni, che considerava l’unica via affinché il forte non si imponesse sul debole, l’arroganza sul giusto contemperamento di interessi confliggenti. Ha così interpretato la sua missione, da Carabiniere prima, da Consigliere comunale poi, sempre nello spirito di aiuto al prossimo. In questo si racchiudeva il suo senso dello Stato, la sua devozione laica alla cosa pubblica, che affiancava a un solido fervore religioso, in una concezione dell’esistenza ove tutto era funzionalizzato al conseguimento del bene altrui.
Un uomo così non poteva che essere un marito e un padre esemplare: la signora Felicietta e i figli Dario e Myriam erano quanto di più caro e sacro la vita gli avesse riservato. Un uomo così non poteva che essere anche un amico sincero e leale, sul quale contare, che c’era sempre e a prescindere.
L’immensa commozione popolare che ha accompagnato questa tragedia non è che un piccolo riscontro del grande bene che ha seminato.
Ciao Biagio, amico leale e persona perbene, ti ho voluto e ti vorrò sempre bene!
Daniele Colucci

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