Cinquantesima edizione del rapporto Svimez. E ancora una volta dall’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno arrivano dati non incoraggianti per il Sud e il Molise.
Il Pil, si legge nel report presentato in settimana a Roma, nel 2023 va a due velocità: la crescita del prodotto interno lordo italiano è stimata a +0,7% con una crescita dello 0,4% nel Mezzogiorno e dello 0,8% nel Centronord. In Molise l’incremento è dello 0,3%.
La riapertura del divario di crescita Nord-Sud è imputabile al calo dei consumi delle famiglie (–0,5%), che non dovrebbe osservarsi nel Centronord (+0,4%). Il reddito disponibile delle famiglie del Meridione è diminuito del 2% (il doppio rispetto al resto del Paese).
Gli investimenti dovrebbero essere interessati da una dinamica positiva, ma in forte decelerazione rispetto al 2022: +5% dal +9,8 dell’anno precedente nel Mezzogiorno, +3,3% dopo il +9,1 del 2022 nel Centronord.
Nel 2024 si stima che il Pil aumenti dello 0,7% a livello nazionale. Al Sud la crescita dei consumi delle famiglie dovrebbe tornare in positivo, sia pure mantenendosi al di sotto della media del resto d’Italia (+0,8 contro +1,3%), grazie al recupero del reddito disponibile reso possibile dal rientro dell’inflazione. Gli investimenti dovrebbero crescere in maniera più pronunciata nel Mezzogiorno, accelerando rispetto al 2023 soprattutto grazie alla dinamica molto favorevole della componente in costruzioni (+9,7% contro +2,2% nel Centronord). Nel 2025, la crescita nazionale dovrebbe attestarsi sul +1,2%.
Sulla dinamica territoriale del Pil 2024-2025 incidono gli effetti espansivi degli interventi finanziati dal Pnrr, per la concentrazione nel biennio del massimo sforzo di realizzazione infrastrutturale. Più in dettaglio, secondo la Svimez il Pnrr eviterà la recessione al Sud in entrambi gli anni di previsione: –0,6% e –0,7% il Pil del Mezzogiorno nel 2024 e nel 2025 “senza Pnrr”.
Molto, però, dipenderà dalla sua pronta ed efficace attuazione. Dall’associazione, che ha focalizzato l’attenzione sugli interventi che vedono i Comuni come soggetti attuatori, arriva una conferma dei ritardi. Il valore complessivo degli investimenti gestiti dai Comuni ammonta a 32 miliardi di euro, per il 45% allocati nel Meridione. Per circa la metà dei progetti risultano avviate le procedure di affidamento; la quota di progetti messi a bando, tuttavia, si ferma al 31% al Sud rispetto al 60% del Centro-Nord. È urgente, hanno evidenziato gli espertidell’associazione, potenziare organici e capacità amministrative degli enti locali del Mezzogiorno.
Altro dato su cui riflettere è quello relativo al mercato del lavoro. Rispetto al periodo pre pandemia la ripresa dell’occupazione si è mostrata più accentuata nelle regioni meridionali: +188mila nel Mezzogiorno (+3,1%), +219mila nel Centronord (+1,3%). Ma è tornata a inasprirsi la precarietà. Quasi quattro lavoratori su dieci (22,9%) nel Mezzogiorno hanno un’occupazione a termine, contro il 14% nel Centronord. Il 23% dei lavoratori a temine al Sud lo è da almeno cinque anni (l’8,4% nel Centronord), emerge ancora dal rapporto.
Inoltre, l’incremento dell’occupazione non è in grado di alleviare il disagio sociale in un contesto di diffusa precarietà e salari bassi. La povertà ha raggiunto livelli inediti. Nel 2022, sono 2,5 milioni le persone che vivono in famiglie in povertà assoluta al Sud: +250.000 in più rispetto al 2020 (–170.000 al Centronord). Nel Mezzogiorno, la povertà assoluta tra le famiglie con persona di riferimento occupata è salita di 1,7 punti percentuali tra il 2020 e il 2022 (dal 7,6 al 9,3%). Un incremento si osserva tra le famiglie di operai e assimilati: +3,3 punti percentuali.
Il carico da 90 è arrivato dall’inflazione, che ha eroso soprattutto il potere d’acquisto delle fasce più deboli della popolazione. Sono state colpite con maggiore intensità le famiglie a basso reddito, prevalentemente concentrate nelle regioni del Meridione (-2,9 punti del reddito disponibile).
Trend purtroppo consolidato: il Mezzogiorno si spopola. La diminuzione delle nascite e il progredire della speranza di vita hanno portato l’Italia tra i Paesi europei più anziani. Le migrazioni interne e internazionali hanno ampliato gli squilibri demografici Sud-Nord. Se da un lato, le comunità immigrate si concentrano prevalentemente nel Settentrione “ringiovanendo” una popolazione sempre più anziana; dall’altro, il Mezzogiorno continua a perdere popolazione, soprattutto giovani qualificati. Dal 2002 al 2021 hanno lasciato il Mezzogiorno oltre 2,5 milioni di persone (fra cui 808mila under 35 di cui 263mila laureati), in prevalenza verso il Centronord (81%). Al netto dei rientri, il Mezzogiorno ha perso 1,1 milioni di residenti. Al 2080 si stima una perdita di oltre 8 milioni di residenti nel Mezzogiorno, pari a poco meno dei due terzi del calo nazionale (–13 milioni). La popolazione del Sud, attualmente pari al 33,8% di quella italiana, si ridurrà ad appena il 25,8% nel 2080. I residenti in età da lavoro diminuiranno di oltre la metà (–6,6 milioni), nel Centronord invece di circa un quarto (–6,3 milioni). Il Mezzogiorno diventerà quindi l’area più vecchia del Paese nel 2080, con un’età media di 51,9 anni rispetto ai 50,2 del Nord e ai 50,8 del Centro.
Per invertire la tendenza pluridecennale al calo delle nascite occorre mettere in campo politiche attive di conciliazione dei tempi di vita e lavoro e rafforzare i servizi di welfare: questa la strada indicata dalla Svimez. Il potenziamento dell’occupazione femminile nel Mezzogiorno, inoltre, è cruciale per contrastare il declino demografico. Le regioni meridionali presentano, infatti, il tasso più basso di occupazione femminile in confronto all’Europa (media Ue 72,5): Campania (31%), Puglia (32%) e Sicilia (31%). Quelle del Centronord si avvicinano alla media europea, ma restano lontane dal benchmark dei Paesi scandinavi e della Germania (78,6). A penalizzare le donne, la carenza di servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia, specialmente nella prima infanzia. Per una single nel Mezzogiorno il tasso di occupazione è del 52,3%, nel caso di donna con figli di età compresa tra i 6 e i 17 anni scende al 41,5% per poi crollare al 37,8% per le madri con figli fino a 5 anni.