Originario di Denno, Trentino, dopo i primi studi tutti al Nord, una vita pastorale tutta al Sud. Tra Calabria e Molise. Affettivamente a chi si sente più vicino?
«Terra amata il Molise, e tanto! Certo in modo diverso dalla terra della Calabria, che resta sempre il mio primo amore, essendo stato inviato dai miei superiori in Calabria, ancora giovanissimo, a Crotone (1976), a soli 28 anni di età. Un’obbedienza gradita, poiché sentivo che servire le Chiese del Sud era per me come continuare, sotto la spinta del Concilio, a vivere sulla scia del servizio ai più poveri, nella logica della mia esperienza in fabbrica, come operaio nelle fonderie di Verona e nelle industrie chimiche di Porto Marghera. A Crotone rimasi per ben 11 anni, fino a quando l’obbedienza religiosa degli Stimmatini (la Congregazione cui appartengo!) mi ha chiesto di trasferirmi a Bari, nel seminario stimmatino teologico della Provincia (1987)».
Una persona che nasce nel “freddo” Trentino, come fa a metabolizzare il calore della gente del Sud.
«La gente del Sud mi ha subito conquistato, fin dal mio primo viaggio in treno, quando (come ho spesso raccontato!) una mamma, nello scompartimento dopo una nottata in treno, offrì a noi due seminaristi quasi smarriti in terra di Calabria, un bel panino per la colazione, preparata alla maniera contadina. E nel porgerci il pane, ci disse, come è tradizione locale, la bellissima espressione: “Favorite, favorite!”. Fu la scoperta di uno stile di accoglienza che divenne emblematico, tanto che ne feci un mio programma, fino a diventare una scritta dal forte sapore eucaristico, posta sopra un tabernacolo nuovo, in una chiesetta di campagna. Chi entra vede subito il tabernacolo, ideato da due giovani architetti, fatto come il forno del pane, tutto rotondo, con la porticina stretta, per non far uscire il calore. Quella scritta, in alto, raccoglie sia la cordialità calabrese e meridionale che il pressante invito di Gesù: “Prendete e mangiatene tutti…”! Nulla di più espressivo, per significare una linea pastorale da me sempre seguita: entrare nella cultura locale, dare voce alla sapienza popolare, per rendere la liturgia capace di raccogliere tutta l’espressività tipica dell’incarnazione. Così che ho sempre invitato i miei preti a valorizzare la simbologia locale; anzi a farsi fare il camice a tombolo dalle mamme del paese, senza comprarlo nei chiassosi negozi romani!».
Se potesse tornare indietro rifarebbe lo stesso percorso? Ha mai avuto ripensamenti e mollare tutto?
«Il mio è stato, sotto la mano del Signore, un percorso ricchissimo di grazia e di benedizione, in tutti i suoi aspetti, che rifarei pienamente, tanto è stato luminoso! Certo, tra gioie e lacrime, poiché la grazia sovrabbonda, là dove il peccato e le lacrime abbondano, (cfr Romani 5,20) come dice san Paolo, in un tratto della Lettera ai Romani. Lettera che tanto mi piace, poiché quella lettera, già decisiva per lui, è stata illuminante anche per me, specie quando affrontai la drammatica realtà del male, tanto da essermi di guida e forza nello scontro con la durissima sfida della mafia, sia in terra di Calabria, che, più nascosta, in terra del Molise».
La Sua è stata una vocazione spontanea, la classica “chiamata”, oppure qualcuno l’ha invogliata a prendere tale cammino?
«In Molise, come al Sud, ho rinnovato spesso la scelta decisiva vocazionale, di mettermi a servizio del Regno di Dio. Una scelta sgorgata in gioventù e ravvivata lungo gli anni, in una convinzione sempre più matura, grato a chi, in vario modo, mi ha aiutato a percorrere questa strada, fondante per me. Benedico allora per la mia famiglia in Trentino, per il Seminario tra gli Stimmatini, con gli studi a Verona, raccogliendo così anche l’incoraggiamento avuto dagli stessi operai in fabbrica, quando seppero della mia decisione di rientrare in Seminario. Certo, ha contribuito a rafforzare la scelta vocazionale anche la contemplazione delle bellezze della terra Trentina, Calabrese e ora Molisana. È stata una contemplazione con cuore stupito, da “contadino” della Val di Non. Il tutto, ben condito da studi solidi, sia liceali che teologici e poi, a Roma, alla Gregoriana, nei polverosi studi di Storia della Chiesa, materia in cui mi sono specializzato con competenza e frutto».
Qual è stato il ruolo della famiglia?
«In tutto questo cammino, devo moltissimo alla mia famiglia di origine, a Denno, in Val di Non, paese posto ad una ventina di chilometri da Trento. Qui, fui segnato da due esperienze che sempre mi sono rimaste impresse: la testimonianza di don Carlo, il mio viceparroco, che ci aveva introdotti nel servizio di chierichetti, vera scuola di vita e poi la realtà della Cooperazione agricola, culminata nella forza commerciale della Melinda, sicura difesa per la vallata, in tempo di grave crisi odierna. Maturai così la mia scelta vocazionale, proprio all’ombra del campanile, come suol dirsi. E lo affermo con riconoscenza immensa, poiché il ringraziare rende perennemente il cuore libero e casto».
Lei è nato ai confini, ai margini della Seconda guerra mondiale, nel 1948. Quando ha maturata l’idea di seguire il Signore? In che maniera ha inciso il conflitto bellico sulla sua decisione?
«La realtà della guerra mondiale io non l’ho potuta incontrare, se non per i racconti di mio padre e di mio zio Luigi, che mi parlavano della occupazione dei tedeschi, posti nella scuola del paese. Mi hanno raccontato della grande fame, sostenuta però dalla capacità dei contadini di aiutarsi con i fecondi raccolti della terra. Le parole di mio zio erano racconti di rispetto, poiché in paese i Tedeschi non fecero nessuna azione negativa contro la gente del posto. Anzi, mio zio ricorda che proprio una camionetta tedesca lo portò all’ospedale vicino, dopo un bruttissimo suo incidente nelle campagne. Era rimasto seriemente ferito sotto un carro di sabbia. All’ospedale, subito trasportato, fu invece miracolosamente guarito!».
A 30 anni, nel 1978, è stato ordinato sacerdote nella Cattedrale di Crotone. Un “collaudo” significativo in una terra difficile.
«La mia ordinazione sacerdotale, il 1° luglio 1978, fu un evento per la città di Crotone, sia perché fu fatta dal vescovo, monsignor Giuseppe Agostino (la cui memoria mi è impressa eternamente nel cuore!) in un momento di improvvisa sua prova per malattia agli occhi, sia perché era stata a lungo preparata dalle varie comunità locali. Con un simpatico episodio, molto eloquente. Avevamo preparato un piccolo buffet, per un momento dopo la consacrazione, in un’ala del conventino di santa Chiara, dove vivevamo in vera povertà. Ma un gruppetto scanzonato di ragazzini riuscì ad entrare e fece razzia di tutto, lasciandoci senza nulla. Un’amara sensazione per mia mamma Albina, che era scesa appositamente a Crotone, dopo un lunghissimo viaggio di oltre 30 ore di treno! Poi, però, la vivace cordialità dei bambini, supplì alla loro inaspettata monelleria. E tutto fu dimenticato!».
Dalla sua biografia si apprende anche di una puntatina nelle Puglie, precisamente a Bari.
«Dopo 11 anni di servizio in Calabria, nel povero centro storico della città di Pitagora, fui mandato dai miei superiori, in obbedienza, a Bari, in aiuto al Seminario teologico degli Stimmatini. La Puglia mi conquistò per la tanta arte, per i paesaggi con il mare e gli ulivi secolari, per la tenacia dei suoi abitanti specie nella realizzazione del famoso stadio di san Nicola, costruito proprio in quegli anni (1988-90). Qui, per grazia, conobbi pure il santo vescovo Magrassi, che mi rimase impresso, per la sua passione liturgica e la sua saggezza».
Nel febbraio del 1994, a soli 46 anni, la consacrazione a Vescovo di Locri-Gerace e il 7 aprile dello stesso anno, l’ingresso nella Chiesa. Quali le emozioni per il salto?
«Proprio a lui mi rivolsi, infatti, con il cuore in mano, quando mi giunse inaspettata, l’11 gennaio 1994, la lettera del Nunzio da Roma, che mi annunciava la scelta vaticana, caduta su di me, di essere vescovo di Locri. Mi incoraggiò, con queste parole sante: “Obbedisci; al Papa non si può dire di NO. Certo, se tu obbedirai, avrai un cammino in salita, pieno di ostacoli, ma Dio sarà sempre con te. Se invece non obbedirai, avrai una strada più facile, ma sarai solo!”. Per obbedire, mi bastò questo criterio ermeneutico, che poi utilizzai in tante altre occasioni per fratelli o sorelle che si ritrovavano davanti a scelte esigenti e difficili. Capii che l’unico e sicuro criterio di fronte alle scelte della vita era sempre quello di avere una chiara visione di fede, come mi suggeriva appunto il vescovo Magrassi».
La paura è un sentimento nobile. Ha mai temuto seriamente per la sua incolumità per una attività pastorale forte, decisa, in un territorio a robusta vocazione delinquenziale, per usare un eufemismo?
«Non ho mai temuto per la mia persona, anche in terra di mafia. Certo, mi stupii di essere stato accolto con una finta bomba, a Gerace, l’8 maggio 1994, giorno del mio ingresso in quella bellissima cittadella antica. Mi chiesi ripetutamente chi mai l’avesse progettata o voluta e perché. Chiesi solo di essere meglio “guardato” dalle forze dell’ordine, ma seccamente rifiutai la scorta fissa, perché mi sarebbe risultata una contro-testimonianza, anche su preciso consiglio di monsignor Giuseppe Agostino. E il gesto fu apprezzato tantissimo dalla gente».
Dopo 30 anni in Calabria, la più tranquilla realtà molisana, a Campobasso. Trasferimento premio o “allontanamento coatto” per motivi di sicurezza?
«È ancora per me piuttosto misterioso, invece, il mio trasferimento da Locri a Campobasso. Come spesso ebbi occasione di spiegare, piansi molto per quell’inattesa obbedienza. Forse la Santa Sede aveva dato ascolto a voci critiche su di me, quasi fossi impaurito da minacce da parte della malavita. Non so ancora spiegarmi questa decisione, che comunque ho affrontato con grande fede, affidandomi alla mano provvidenziale di Dio Padre. Resta sempre qualcosa di strano in tutto questo. Rimane per me come una ferita, non risanata. Fu certo un segno di Dio, che mi faceva cambiare prospettive, spirituali, personali e pastorali. Solo in una chiara visione di fede ho accolto quest’obbedienza, ponendola nel cuore di Dio! E questo mi è bastato, poiché mi fidai della grande frase del Priore di Serra san Bruno, da me consultato: “Dio obbedisce a chi obbedisce!”».
Sedici anni in Molise. È possibile fare una sintesi di questa lunga esperienza?
«È ben difficile fare un bilancio dei miei 16 anni, qui in Molise. Meglio, una sintesi, perché tanti sono gli eventi che mi hanno coinvolto. Preferisco una narrazione, in relazione alle vostre domande dirette. Grazie».
In particolare, tra le cose più belle, che lei chiama perle, cosa l’ha colpita?
«In particolare, tra “le perle” (usando le parole che ho valorizzato nella mia visita pastorale a tutte le parrocchie della diocesi, dal 2012 al 2015) posso analizzare alcune piste di grande dono che il Signore mi ha fatto.
Ne evidenzio tre direttive che mi posi, tre “perle”.
Valorizzare sempre più la bellezza di questa terra del Molise;
rilanciare il cuore nello zelo per il bene;
far leva sulla tenacia dei Sanniti, per affrontare il male.
La prima perla mi ha aiutato a puntare sulla bellezza del Molise, per far fiorire questa terra.
Man mano che conoscevo il Molise, mi sono infatti prefissato di valorizzarne la bellezza, perché terra pulita e serena. La gente che la abita è semplice e buona, ma ha vissuto una lunga storia di asservimento, creato da dure forze esterne: Romani, Longobardi, Svevi, Spagnoli, Napoletani, Piemontesi. È sempre stata terra di conquista; perciò non in grado di valorizzare tutta la sua potenzialità, per diventare fiera di quanto già possiede, in abbondanza. Ho cercato perciò di evidenziare quanto sia bello e valido il Molise, specie nei miei articoli mensili sul Messaggero di Sant’Antonio, nelle mie omelie, nelle Lettere pastorali, mettendo sempre in luce la ricchezza di risorse di questa Regione. In questa ottica, una scelta costante è stata la valorizzazione delle aree interne, da custodire. È stato prezioso l’aver puntato sulle aree interne, che spesso la fretta del mondo moderno emargina o esclude. Sono invece decisive e fondative. Se infatti è sereno un paese interno, quella serenità si trasferisce facilmente sulle terre vicine. Ma anche il contrario, come è avvenuto con la recente alluvione in Romagna. Qui, non c’è stato il tracimare del grande fiume, il Po, che ha rotto gli argini ed è uscito, inondando ogni cosa. Il danno è venuto invece dai piccoli torrenti interni, di poca portata, ma violenti in certi momenti, perché non erano stati puliti, nel loro corso. È perciò vero quanto abbiamo maturato in Calabria, dopo una alluvione devastatrice: “Se il bosco è verde, il mare è blu!”. Cioè, se le aree interne del bosco sono ben curate, non ci saranno alluvioni o danni al mare, che resterà blu, come verde sarà il bosco, curato e amato. Faccio alcuni esempi, visibili. Ad esempio, la decisione di chiudere una stazione della Posta, in un piccolo borgo, non va mai valutata dal solo numero dei pochi abitanti di quel paesino. Perché, a sua volta, quel piccolo borgo di case custodisce una grande collina, che non franerà, se sarà amata e curata. Perciò la custodia del servizio postale per gli anziani diventa allora preziosa, perché la collina custodita non danneggerà, in caso di alluvione, la città sottostante, con spese ben maggiori. Ecco perché ogni piccolo paesino va rispettato e curato, proprio come si fa per i grandi borghi o le grandi città. Il numero degli abitati, da solo, non deve determinare la chiusura o apertura dei servizi collettivi per il territorio. E quanto diciamo per la posta, vale anche per le parrocchie piccole, che non vanno mai soppresse, perché si ferisce la identità di un popolo. E lo stesso dicasi per la soppressione delle diocesi. Non è questa la via da seguire, cioè la soppressione. Ma la integrazione, in reciprocità e collaborazione, nei servizi comuni. Mi sono reso conto della preziosità delle aree interne, soprattutto durante la mia VISITA PASTORALE, fatta in tutti i paesini della diocesi, in ben quattro anni, iniziando nel 2012 e concludendo nel 2015. È stata uno dei momenti più entusiasmanti per il mio servizio episcopale. Passare di paese in paese e benedire, visitare, dormire in paese anche in luoghi precari, incontrare gli anziani e gli ammalati, sostare nelle scuole, dialogare con la gente al bar, pregare con i preti per vedere come vivono la realtà quotidiana comprendendone così anche i drammi e le fatiche. Essere prete, oggi, nei piccoli centri esige infatti una fede ancora più forte e vitale, perché sono sempre poche le persone in chiesa, alla messa festiva. Durissimo poi è vivere in questi paesini in inverno, quando la gente anche a messa è di fatto assente. Ho visitato anche tutti i cimiteri, benedicendo le tombe, una ad una, in un intreccio di lacrime asciugate. E non è mancata naturalmente la visita alle fabbriche o alle zone artigianali, per vedere quanto operoso sia il nostro popolo molisano. Lei mi chiede qualche ricordo diretto. Eccone uno sempre vivo nel mio cuore: l’incontro con i ragazzi e i giovani, nelle tante scuole, piccole e grandi, sempre rumorose e calde di affetto e di entusiasmo giovanile. Tenendo la lavagna alle spalle, mi sentivo un vero maestro in cattedra, che sa trasmettere speranza alle nuove generazioni, attente e curiose, con acute domande, insaziabili di sapere. Dalle cronache delle varie visite, puntualmente seguite con la mia macchinetta Olivetti 35, è uscito un corposo volume di sintesi, che riporta in copertina la foto di un agnellino portato da me in braccio, con la scritta di un testo famoso di Isaia (40,11): “Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna: porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri”. Per ogni paese è riportata la data, il parroco, le impressioni più evidenti, i suggerimenti pastorali offerti, sgorgati insieme al Consiglio pastorale ed economico, che avevo incontrati in quei giorni santi. Il libro è accompagnato da un consistente apparato fotografico, ricco di belle immagini, scattate dall’Ufficio comunicazioni sociali (Giulio, Diego e Patrizia) nei momenti più significativi della visita. Un vero tesoro, valido come documento per la storia locale, capace di far verificare quanto siano solidi i passi compiuti negli anni successivi. Servirà così come esame di coscienza per ogni comunità! Un particolare simpatico: oggi la gente, quando andiamo in macchina, si stupisce per come conosco luoghi e strade di ogni borgo interno. Tutto è nato proprio da questa esperienza di fede e di missionarietà unica, qual è la Visita Pastorale, che mi ha lasciato nel cuore una grande nostalgia».
Tra le rughe, ce n’è qualcuna da mettere in evidenza?
«Ci sono rughe in qualche punto? Certo, ci sono, ma sono le normali resistenze che il Molise soffre e registra. Come, ad esempio, la lentezza in alcune iniziative locali, la fatica a uscire dal proprio paese per partecipare ad iniziative comuni, la rassegnazione di alcuni parroci che prima ancora di provare, subito pongono davanti le consuete obiezioni: “Questo da noi è impossibile!”. Duro è il fattore spopolamento, crescente nei Borghi molisani; rallenta ogni cosa. Si aggiunga l’insidiosa secolarizzazione che ormai raggiunge anche i piccoli centri, per completare il quadro delle criticità locali».
Perché nella sua attività di vescovo ha molto ravvivato la devozione a santa Maria di Magdala?
«Perché partendo da queste criticità, ho trovato illuminante presentare alla diocesi la devozione a santa Maria di Magdala, Lei che è stata riabilitata da Cristo. Lei così fragile, da un passato complesso, si è poi fatta messaggera presso gli Apostoli. Lei, la mattina di Pasqua, si è alzata al buio ed è corsa al sepolcro, trovandolo aperto. Qui, vegliando con fiducia, ha incontrato Gesù, che le appare e le dice: “Va a svegliare Pietro e Giovanni”. E i due apostoli si misero a correre con Lei, a velocità diverse. Giovanni corre veloce e arriva al sepolcro per primo, ma non entra. Pietro arriva dopo e, con accortezza, vi entra. Giovanni apre la strada a Pietro. Ma chi apre a tutti e due il cammino di liberazione, nella vittoria sulla paura, è stata Maria di Magdala. Lei ha vissuto prove grandi, ha molto sofferto, schiacciata dalla vita. Riabilitata da Cristo Gesù, ha ritrovato fiducia in se stessa. Ha creduto all’amore ed è diventata l’annunciatrice del Cristo Risorto. Questa è l’icona che ho tanto utilizzato, per parlare alla nostra Diocesi. Vi ho visto il riscatto, con un preciso percorso di cambiamento radicale. Come per Maria di Magdala, anche nella storia del nostro popolo Molisano può avvenire questo cambiamento. Perciò ho pensato di sceglierla come guida ed icona del nostro SINODO DIOCESANO (2017-20), che in copertina porta proprio la sua immagine, in adorazione del Risorto, con la scritta: “Liber Sinodalis, conquistati dalla Gioia per il Vangelo, come Maria di Magdala”».
Già, il Sinodo Diocesano, da Lei generato e condotto, contribuirà a dare una spallata per il bene della Chiesa del futuro?
«Il Sinodo diocesano è stato un grande scossone, prima nella fatica nello svolgimento effettivo e poi nella concreta sua attuazione. Tutta la diocesi, però, è stata in vario modo coinvolta. E ne sono segno i cinque volumi di Atti sinodali, che ci restano in archivio. Ma il gioiello di conferma è il Liber Sinodalis, un compatto volume di oltre 360 pagine, fornito di indice analitico e abbellito da foto significative, che raccoglie, con precisione di votazioni numeriche, tutte le decisioni prese. Tale parte pastorale è basata su una solida riflessione teologica precedente, che fa a loro da fondamento. È un vero Programma di vita e di fede, che consegno alla comunità nei SEI DONI, fatti schema del Liber Sinodalis: Terra alleata; Cuore rimotivato, Casa accogliente; Famiglia aperta alla vita; Vette che conquistano i giovani; Maria che cammina sempre con noi».
Come ha trovato la Chiesa locale e in che stato la lascia. Come vuole che il suo Ministero venga ricordato.
«Per definire lo stato della diocesi, oserei affermare che la parola guida del mio agire in diocesi è stata la parola zelo, da ravvivare, per rilanciare il cuore. È il secondo obiettivo pastorale, nella mia vita di vescovo in Molise. È il campo della SPIRITUALITà, cioè delle motivazioni profonde. Rilanciare il cuore, cioè, ravvivare lo zelo, è perciò diventato il grande obiettivo di rinascita. Papa Francesco ci esorta: “Passare dal gelo allo zelo”. Per arrivare a questo scopo, ho molto insistito sulla Parola di Dio e sull’Eucarestia. Ogni anno ho lanciato un libro biblico come strumento di formazione popolare, nei Cenacoli del Vangelo, da vivere nelle famiglie. È una forte rimotivazione del cuore, basata sulla Bibbia. Ed anche oggi insisto che il rinnovamento liturgico dia ampio spazio alla parola di Dio, perché solo la parola di Dio, rinnovata e rinnovatrice, produce una nuova mentalità. Mi piace prendere ad esempio una piccola parrocchia della nostra Diocesi, dove ogni venerdì il parroco si incontra con un gruppo di suoi parrocchiani e prepara con loro le letture festive, realizzando un bel foglietto di spiegazioni. Viene annunciato ai fedeli alla Messa solenne e poi lasciato in fondo alla chiesa. Quel popolo adagio adagio si è sentito protagonista della propria storia. Ha vissuto meglio, insieme alla famiglia e alla scuola e alla piazza. Ha pensato poi anche ai giovani e al loro futuro, creando per loro delle iniziative specifiche di oratorio giovanile. Ha riletto anche la storia del paese, tramite le figure dei santi patroni. Ha raggiunto gli ammalati e gli anziani, chiusi in casa, portando anche a loro la Parola nel foglietto. È nato quindi anche un dialogo culturale interessantissimo. La parola di Dio realmente ha cambiato quel piccolo paese perché, quando si pone la Parola al centro della vita pastorale, tutta la parrocchia cambia. È la fonte dello zelo. E mentre ami la tua terra, la cambi attraverso la Parola. E la Parola a sua volta cambia il modo di celebrare l’Eucarestia, che diventa così partecipata, attrattiva ed ancorata alla Vita. Non più pesante o scontata, ma rinnovatrice e viva. La messa si fa punto atteso di cambiamento, spirituale e sociale. Per tutti! Ecco perché vorrei essere ricordato, in futuro, “come il Vescovo della Parola, innamorato della Bibbia!”».
Ci sono state altre iniziative culturali e sociali?
«Certo, ma sono sempre partite da questo rilancio del cuore, in uno zelo vivacissimo. Infatti, ho dato tempo e energie anche alla stampa e ai mezzi di comunicazione sociale, scrivendo volentieri articoli, saggi, libri, studi su vari argomenti, nella certezza che il silenzio e lo studio fanno maturare le realtà nuove, che richiedono tempo più che spazio. È nato così il mensile Moliseinsieme, che per alcuni anni è stato anche organo delle quattro diocesi del Molise. Poi, non gradito dagli altri vescovi, per diverse ragioni, soprattutto economiche, si è trasformato in Intravedere, un mensile, curato dalla sola realtà diocesana di Campobasso-Bojano, tramite un audace gruppo di redattori, ben convinti e determinati. È simpatico, cerca di capire gli eventi di questa terra (appunto di Intravedere, per leggere oltre!), esce alla fine del mese come resoconto sapienziale, raccogliendo così i momenti più significativi o sofferti della vita dei nostri paesi e della diocesi tutta. Scava, lentamente, nel cuore dei nostri fedeli, pur nella precarietà degli abbonamenti. In questa ottica ho creduto nella centralità del clero per il rinnovamento della vita Pastorale diocesana. Per questo, ho puntato su due realtà formative di Seminario in vista del sacerdozio, ora presenti in diocesi, da me gioiosamente accolte e ravvivate: il seminario diocesano Missionario, Redemptoris Mater, guidato dalle Comunità neocatecumenali, collocato in un antico convento di Sepino, che esse hanno saggiamente trasformato e ben adattato alla spiritualità missionaria. Anche se gestito dalle Comunità neocatecumenali, è pienamente diocesano. Ho poi ravvivato la Associazione Maria stella dell’Evangelizzazione, collocata a Cercemaggiore, nel bellissimo santuario mariano dedicato alla Madonna della Libera. Hanno come carisma la spiritualità eucaristica (fedelmente seguita tutte le notti!) e la devozione mariana, con ampio dono del Rosario, recitato insieme in comunità, tre volte al giorno, in un clima di forte povertà ed austerità di vita. Il beneficio pastorale dei due seminari è stato incisivo, anche se non sempre allo stesso modo! Dai due seminari sono usciti un bel gruppo di preti, a servizio della nostra diocesi, capaci così di ravvivare la nostra pastorale, con cuore fresco e giovanile. Un altro impulso è stato dato alla spiritualità per ravvivare lo zelo apostolico e pastorale, tramite la fondazione in Montagano di un piccolo ma vivace MONASTERO CARMELITANO, di cinque monache. Una di loro, è figlia della nostra terra, segno di una fecondità gioiosa tra le ragazze dei nostri borghi. Il monastero, dedicato a sant’Elia, è collocato in territorio di Montagano, un bel comune del Molise, dalle radici antiche, poiché ha ospitato nel secolo XIII l’abbazia dove san Pietro Celestino ha fatto il suo noviziato. Poi, da questo suo monastero iniziale, è partito per l’esperienza eremitica in terra di Abruzzo, fino a L’Aquila di Collemaggio, per diventare infine Papa, famoso per la scelta di lasciare il suo servizio pastorale, con consapevolezza e grazia, quando si rese conto che la Chiesa aveva bisogno di un altro Papa».
Di fronte alla difficoltà del territorio, come ha reagito?
«Davanti al male, davanti alle fatiche di questa terra, davanti alle resistenze, ho sempre pensato di valorizzare la tenacia, tipica dei sanniti, per farne ricchezza culturale e sociale, oltre che pastorale. Puntando su questa tenacia, possiamo infatti valorizzare tutta la cultura del Molise, creando anche qui una grande esperienza di incontro con le altre terre. Rilanciamo così il cammino educativo, imparato già in Calabria: passare dalla marginalità alla tipicità, per intrecciarla con altre tipicità, in reciprocità. Perciò tre le parole d’ordine che mi hanno guidato: marginalità da conoscere, tipicità da costruire, reciprocità da intrecciare. Anche il Molise può e deve uscire dal suo guscio, per incontrare altre terre, superando la mancanza di strade e creando altre forme di collegamenti, vincendo così le tante remore che frenano lo sviluppo di questo bel popolo».
Dopo le brillanti meditazioni per la Via Crucis al Colosseo, del 18 aprile 2014, presieduta da papa Francesco, il popolo molisano si aspettava qualche ricompensa, come una possibile nomina cardinalizia…
«No, per fortuna, non c’è stata perché, oltre a non meritarmelo assolutamente, avrebbe suscitato di certo numerose critiche ed invidie. Sono invece gratissimo a papa Francesco, insieme al mio popolo molisano, perché è venuto tra di noi, in Molise, per la visita pastorale alla nostra regione, il 5 luglio 2014. Le soste da lui compiute tra di noi sono una piccola enciclica, carica di profezia. Ha saputo parlare al mondo del lavoro e della ricerca all’Università, si è messo in ascolto della sofferenza della gente in Cattedrale, ha inaugurato e benedetto la Mensa e il Dormitorio della Caritas per i poveri mangiando con loro, ha celebrato la Messa solennemente, in una originale “capanna” di pastori di montagna, nello stadio antico della nostra città, davanti alla bella statua della Madonna della Libera incentrando il suo messaggio sul tema della libertà vera, fatta per amare e non per i capricci egoistici, ha visitato il carcere di Isernia, lasciando un dolce sorriso di speranza, ha ascoltato con cura i lavoratori della Fiat, esortando a dare il meritato spazio di riposo alla domenica, ha spronato i giovani ad uscire dal labirinto di visioni chiuse e meschine al Santuario di Castelpetroso nel cammino sorprendente di un itinerario vocazionale sulle orme di san Pietro Celestino, nostro Patrono. Veramente un esaltante momento, carico di storia e devozione, per tutto il Molise. E c’era tutto, poiché hanno partecipato tutte le quattro diocesi, tramite interventi, riflessioni e preghiere».
Negli ultimi tempi ha sperimentato anche il dolore, la sofferenza, per via delle sue non buone condizioni di salute. Cosa può dirci?
«La malattia mi ha visitato in modo inaspettato, come sempre accade. Ma è stata una vera scuola da parte di Dio, che mi ha fatto comprendere come tutto sta nelle sue mani e non nelle mie. Sono gratissimo ai due ospedali che mi hanno curato: il Neuromed, a Pozzilli, per la cura di un pericoloso ematoma cerebrale, che preso in tempo (anche su precise indicazioni alla nostra “Cattolica”!), si è dimostrato gestibile senza creare danni. Al Cardarelli, in città, dove poi sono stato curato per il cuore, con l’impianto provvidenziale del pacemaker. Ho constatato che la nostra Sanità molisana, se lavora in sinergia tra pubblico e privato, riesce a dare risposte di grande qualità, a beneficio della nostra gente».
Il Papa ha accettato le sue dimissioni. Come vive questo momento di attesa dell’arrivo del successore?
«Il Papa ha accettato le mie dimissioni da vescovo come era doveroso. Certo, in questo momento particolare mi trovo in attesa del nuovo vescovo Biagio Colaianni. Restano domande sul mio futuro: come vivere la mia permanenza nella casa in affitto della Curia? Come accogliere il successore, visto che la cattedrale, purtroppo, non è ancora completata…! Queste ed altre domande mi assillano. Ma confido in Dio, certo che egli saprà aprire ogni porta, anzi, le trasformerà in veri portoni di grazia. Per ora, penso comunque di rimanere in città, in un piccolo periferico appartamentino della diocesi, se non sarà di inciampo al nuovo Pastore, che mi aspetto possa portare a compimento le diverse attività, rimaste iniziate. Le ho già segnalate nella mia Relazione alla Santa Sede, stesa al termine del mio servizio. Ora sto raccogliendo tutte le mie lettere pastorali e gli interventi di formazione biblica, nel cammino dei Cenacoli del Vangelo, fatti ogni anno. A questo proposito, ritengo che questa strada dei cenacoli del Vangelo sia la strada che meglio può trasformare il Molise, rendendolo una Regione capace di vera autonomia, in tutti i suoi campi, perché si fonda sulla Bibbia».
Una benedizione, infine, per il popolo molisano e, in particolare, per i più bisognosi.
«Nel nome del Signore, sulle orme di san Bartolomeo, patrono della nostra diocesi».
Michele D’Alessandro