Insolita l’arma del delitto. Un affilatissimo trincetto da calzolaio che uno sconosciuto, sui cui connotati le testimonianze non furono concordi, aveva utilizzato per squarciare l’addome e ridurre in fin di vita l’onorevole Michele Pietravalle. È l’unica traccia lasciata in mano agli inquirenti, magari con intenti di depistaggio, dal responsabile dell’agguato, avvenuto in pieno giorno il 28 giugno 1923, a Napoli, in Piazza Oberdan, non lontano dall’abitazione del parlamentare molisano in Via Cisterna dell’Olio.
La morte del deputato e vicepresidente della Camera sopravvenne il 2 luglio, dopo cinque giorni di agonia. Il 4 luglio gli furono tributati solenni funerali di Stato con la partecipazione commossa della cittadinanza napoletana. Non meno imponenti, gli onori funebri resi all’indomani mattina, a Campobasso, con un oceanico corteo di 30mila cittadini che onorò il feretro, in transito per la natia Salcito, dove il giorno dopo si tennero le esequie e la tumulazione.
Intanto, lo scalpore suscitato dal delitto aveva spinto gli inquirenti ad aggrapparsi di volta in volta a indizi che avevano portato al fermo temporaneo dei sospettati di turno, tra i quali anche strampalati globetrotter stranieri. Nessuna rivendicazione. Ignoti il movente che aveva armato la mano dell’assassino e l’ambito specifico del ruolo e dei molteplici interessi della vittima che poteva avere innescato la furia omicida. Le indagini, per usare una frase fatta, ruotavano a 360 gradi attorno alla condotta e all’operato di Michele Pietravalle, il brillante professore universitario; l’autorevole uomo politico che, giunto alla sua quarta legislatura, stava abbandonando le note posizioni massoniche e radicali per confluire tra i ranghi fascisti; il potente responsabile della rete ospedaliera napoletana; l’uomo sic et simpliciter, non ancora 65enne, che anche il giorno dell’aggressione stava tornando a piedi a casa per il pranzo, portando con sé un mazzo di fiori da porre davanti al ritratto della moglie, morta tre anni prima, dalla quale aveva avuto il figlio Paolo, ancora scapolo, e cinque figlie, tutte coniugate, a cominciare dalla primogenita Angelina, che firmandosi Lyna Pietravalle, acquisirà di lì a poco una buona notorietà letteraria.
Di concreto, dunque, in mano agli inquirenti, restava l’arma del delitto: il trincetto insanguinato e tagliente che da subito indirizzò le indagini verso i calzolai. La stampa dell’epoca registrò le posizioni di un paio di loro per giunta omonimi, il che non porta ad escludere che si trattasse della stessa persona, per quanto accreditati di provenienza diversa. Il primo si chiamava Michele Ferrara. Il «Don Marzio» del 29 giugno, lo metteva in relazione con una “severa inchiesta sul funzionamento amministrativo del manicomio Giudiziario di Nocera Inferiore”, condotta in precedenza dal Pietravalle. Ma all’indomani «Il Piccolo» precisava che “il calzolaio Ferrari”, arrestato a Nocera, era stato rilasciato perché aveva dimostrato di non essersi mosso da quella località.
Più delicata la vicenda del secondo calzolaio incriminato, un molisano, che il 27 giugno 1923, vigilia dell’agguato, era stato ricevuto dal dottor Pietravalle nella sua casa di Napoli, e davanti al rifiuto del corregionale a disporre per un suo ricovero nel nosocomio degl’Incurabili, aveva dato in escandescenze e, pare, avesse proferito minacce. Si chiamava Arcangelo Ferrara, ma registrato all’anagrafe con il nome di Arcangelo Michele, era conosciuto a Toro, dove era nato e risiedeva, anche come Michele.
Ai suoi danni si aggiunga che il paese di origine di per sé non godeva buona fama, almeno a voler dare credito al blasone popolare che recitava e recita:
Da Ture fuie, camure!
(Da Toro fuggi, ché muori!).

Si aggiunga, inoltre, la nomea che accompagnava i Ferrara, condensata nella maledizione proverbiale, cui ricorrevano i genitori dei comuni limitrofi, per rovesciarla in un empito d’ira sulla testa delle figlie, ree di qualche sgarbo nei loro confronti:
Te puzze accasà a Tture, e ppuzze amparentà ch’i Ferrare!
(Possa accasarti a Toro, e imparentare con i Ferrara!),

maledizione che nella variante di Pietracatella, suonava ancora più dura:
Puzze ì’ mure mure
e ‘ccasarte che ‘nu Ferrare de Ture!
(Possa andare muro muro
e sposarti con un Ferrara di Toro!)

Si capirà allora come il quadro indiziario a suo carico apparisse fosco. Tant’è che il «Roma» del 4 luglio poteva assicurare i lettori: “Che l’assassino non sia napoletano è comprovato da testimonianza irrefutabili e che l’assassino sia di Campobasso o per meglio dire di qualche piccolo centro della provincia è più che certo”. Eppure, la spiegazione fornita risultava addirittura surreale, basata com’era su un ragionamento sorprendente: “Il coltello stesso, che del trincetto non ha che la sola foggia… dimostra che l’arma è stata lavorata per l’occasione. Si tratta infatti di un pezzo di ferro, rigido, della lunghezza di un trincetto, alla cui estremità la mola ha dato un taglio da rasoio con punta sottilissima. La lavorazione dei coltelli com’è noto è specialità assoluta di Campobasso, e poiché, ripetiamo, si tratta di un’arma affatto nuova, lavorata a regola d’arte con un pezzo di ferro per renderla rigida e quindi micidiale, è fuor di dubbio che l’assassino, preparando il delitto a Campobasso stesso o nelle vicinanze, si sia procurata o abbia forgiata l’arma sul posto…”. Insomma, per dirla in termini terra terra, parrebbe proprio che 100 anni fa solo a Campobasso si potesse realizzare una lama ben affilata. E questa convinzione, al di là della forzatura dialettica nel contesto tragico, resta comunque un’ottima testimonianza della considerazione di cui godeva la secolare tradizione campobassana.
Da notare, inoltre, che l’altro storico quotidiano di Napoli, «Il Mattino», in pari data ma in evidente contrapposizione con l’ottimistica certezza della testata concorrente, annotava: “La P.S. ed i Reali Carabinieri continuano a brancolare nel buio” e, sebbene “tutta la squadra mobile e una compagnia di carabinieri siano stati mobilitati a Napoli e in tutta la provincia di Campobasso…, le indagini finora non sono state coronate dal successo”.
A intorbidire ancora di più le acque ci pensava «Il Mezzogiorno», che sempre in data 4 luglio annunciava Un sensazionale colpo di scena nel mistero dell’assassinio dell’on. Pietravalle, riportando la notizia che in punto di morte, la vittima, che nei giorni precedenti aveva sempre affermato di non aver riconosciuto il suo aggressore, lo aveva denunciato al Procuratore del Re e al Sostituto, accorsi al suo capezzale, nella persona del farmacista Nicola D’Abramo senza aggiungere altro. Anche «Il Mezzogiorno», emulando i colleghi del «Roma», dava sostanzialmente per chiuso il caso, abbandonandosi a una requisitoria contro il D’Abramo, farmacista di Lucito, e come tale accomunato a tutti i farmacisti dei piccoli centri, i quali dediti a “lunghe soste conciliative del pettegolezzo”, polarizzavano nelle loro botteghee nelle loro persone, “spesse innocue e insignificanti che stanno tra il tabaccaio e il dolciere, tutta la vita pettegola e politica del paese”. Nella foga accusatoria, il giornale presentava il D’Abramo come un nemico implacabile del Pietravalle, che tra l’altro gli aveva impedito di vincere il concorso per la gestione di una farmacia a Campobasso. Di qui, secondo le accuse, l’ostilità durata per oltre vent’anni che sarebbe costata “parecchio al D’Abramo che pare vi rimettesse parte della sua fortuna se non tutta addirittura”, sussidiando il settimanale «Molise Avanti» e ispirando altri due settimanali di Napoli a ordire “una campagna violenta contro il suo nemico”.
Sennonché l’ipotesi della rovina economica, almeno per ciò che riguarda «Molise Avanti», è smentita senz’altro dal fatto che il giornale, diretto da Nicola D’Abramo, aveva la veste ufficiale di “Organo della Federazione Provinciale Socialista” e nasceva “sulla scia di un movimento riorganizzativo non disprezzabile”, come farà rilevare lo storico Raffaele Colapietra. Amministratore era il farmacista Francesco Zarrilli, di Riccia. Di conseguenza, nessuna lotta solitaria contro i mulini a vento.
Sia come sia, «Il Mezzogiorno» annunciava in conclusione del suo scoop che il commissario Pastore, giunto a Lucito, aveva tratto “in arresto il farmacista D’Abramo, traducendolo presso la questura di Campobasso”, per ordine del Procuratore del Re.
Caso chiuso, dunque, e colpevoli molisani come annunciato dal «Roma» e dal «Mezzogiorno»? Nemmeno per idea. Due identità distinte, un calzolaio e un farmacista per un solo aggressore e un solo delitto, erano troppi. Tanto più che la vittima, dichiarando di aver riconosciuto il D’Abramo, lo sgravava dell’eventuale accusa di mandante che si era giovato del calzolaio in veste di esecutore. Prova ne fu l’articolo de «Il Mondo», che dopo aver ricordato la visita del Ferrara in casa Pietravalle, alla vigilia dell’aggressione, riferiva del buco nell’acqua fatto con l’allerta degli inquirenti ai Carabinieri di Campobasso, i quali lo avevano arrestato a Toro, per poi vederlo rimesso in libertà perché in grado di provare la propria estraneità all’aggressione, essendo ripartito da Napoli, dopo il colloquio compromettente con il potente e influente direttore degli Ospedali Riuniti, per dirigersi prima a Salerno per affari, e quindi al paese, dove era giunto la sera dello stesso giorno per restarvi anche all’indomani, il giorno dell’attentato all’onorevole Pietravalle.
Stesso copione anche nel caso del farmacista D’Abramo, che provò la sua estraneità al delitto sebbene in precedenza, da direttore del settimanale socialista «Molise Avanti», avesse effettivamente firmato una serie di roventi e documentate inchieste giornalistiche per denunciare i numerosi incarichi pubblici e professionali, i conflitti di interessee gli intrecci tra affari e politica a carico di Pietravalle. E a conferma che non si trattasse di una campagna solitaria, mossa soltanto da ragioni di risentimento personale, il leader del fortissimo partito dei combattenti, Gaetano Acciaro, porterà la questione prima al Consiglio provinciale di Campobasso, poi, con Ippolito Finizia, altro esponente di spicco dei combattenti, nei tribunali di Napoli, con esiti peraltro sempre favorevoli a Pietravalle.
Sulla vicenda si pronuncerà anche Michele Romano, uomo politico a quell’epoca in grande ascesa (nel 1925 sarebbe diventato sottosegretario al ministero della Pubblica istruzione). Ne dà notizia, con grande risalto, il giornale del partito popolare molisano, «L’Avvenire del Sannio», 26 marzo 1922, riportando l’intervento di Michele Romano in Consiglio provinciale: “Pietravalle ha in pugno le sorti finanziarie, può pesare sul nostro bilancio. Da una parte egli determina le spese, dall’altra viene qui a votare […]. E ci viene a fare distinzione fra morale e legge? Nessuna legge non rientra nella cerchia della morale, contro la quale ogni discussione è vana”.
Resta da aggiungere che Pietravalle non aveva mai replicato con iniziative giudiziarie a tutela del suo buon nome. E questo qualcosa doveva pur significare, insieme alla modesta considerazione, suffragata dai numerosissimi casi registrati dalla storia italiana di ieri e di oggi, e non solo italiana, che indicano nel potente di turno e nei suoi sgherri i carnefici e nel giornalista scomodo la vittima, mai viceversa.
Meno male gli alibi inoppugnabili che salvarono il calzolaio torese e il farmacista di Lucito, perché le indagini, rimaste per mesi senza esito, si sarebbero risolte solo quando i figli della vittima si decisero a interessare direttamente Benito Mussolini. Solo allora un delinquente, tale Giuseppe Falanga, già in carcere per altri reati, avrebbe rivendicato la responsabilità dell’omicidio, perpetrato su istigazione di due infermieri dell’Ospedale della Pace, per essere in seguito processato e condannato nel 1927, in un contesto di perduranti dubbi – anche per possibili coinvolgimenti della camorra e, addirittura, dello Stato – stante la rete aggrovigliata di conoscenze e di interessi, intrecciata da Michele Pietravalle.
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A parte il busto di bronzo scoperto a Petacciato lo scorso mese di agosto, in occasione dei 100 anni di autonomia amministrativa del paese, che si staccò da Guglionesi nel dicembre 1923 grazie alla legge promossa da Michele Pietravalle, il centenario della morte del parlamentare molisano non è stato ricordato in nessuna manifestazione ufficiale: né alla Camera dei deputati che lo ebbe vicepresidente, né alla Regione Molise, né alla Provincia di Campobasso, della quale fu presidente in tempi in cui il territorio corrispondeva a tutto il Molise, né a Salcito suo comune natio, né tantomeno per iniziativa dei parlamentari molisani. Di qui, il nostro modesto tributo, stilato anche sulla scorta di scritti di Mauro Gioielli, Michele Tuono e Gino Massullo, nonché dei ritagli di alcuni giornali di 100 anni fa, trascritti in un volume a lui dedicato nel 2011 da Nicoletta Pietravalle.

Giovanni Mascia

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