«Non sono mai stata una secchiona né la più brava della classe», eppure Claudia Cesa è l’unica italiana selezionata tra i 35 giovani ricercatori europei premiati dalla MIT Technology Review per aver rivoluzionato il campo delle interfacce neurali. Il suo lavoro le è valso il titolo di MIT Technology Review Innovator Under 35, un riconoscimento che dal 1999 premia giovani innovatori capaci di creare tecnologie con un impatto positivo sulla società.
Claudia ha inoltre ottenuto una cattedra nel dipartimento di ingegneria elettronica a Yale a partire da luglio 2025. Nata nel 1990 a Cassino, ma molisana di origini (il padre è il sindaco di Vastogirardi), Claudia lancia un messaggio alle migliaia di giovani che hanno intrapreso studi universitari e che magari hanno sogni che sembrano troppo ambiziosi. Quella frase «non ero la più brava» è una sorta di manifesto. Parlare con lei è un balsamo per chi, come me, nutre grande fiducia nelle nuove generazioni. L’appuntamento via Meet è fissato per le dieci di sera. A Boston sono le 16, e Claudia ha appena terminato una conferenza di lavoro.
«Ho sempre guardato Dr. House con mio fratello, ma avevo una grande paura degli aghi. Così ho pensato: se non posso fare il medico, almeno posso progettare i dispositivi che usano. E così mi sono iscritta a Ingegneria Biomedica a Pisa. Ma non sono mai stata la classica secchiona né la migliore del corso. Mi piacevano molto le materie scientifiche, ma avevo anche tanti interessi al di fuori dello studio: molti amici, mi piaceva divertirmi, uscire e giocare a pallavolo», mi dice. E mentre lei parla della sua vita, io la guardo e penso: quanta normalità in una ragazza che ha appena ottenuto un riconoscimento per una scoperta che, se non salva vite, migliorerà certamente la qualità di vita di molti pazienti.
Claudia racconta che l’Università di Pisa organizza ogni anno una Summer School a San Diego, negli Stati Uniti, e, spinta dalla curiosità e dalla voglia di viaggiare, decide di partecipare. «Mi sembrava una buona occasione», dice a proposito di quella decisione che cambierà il corso della sua vita. Lì, infatti, incontra un professore che, dopo uno stage di sei mesi retribuito, le offre la possibilità di laurearsi in California. «Ho accettato», spiega, «anche se studiare in America è molto più costoso rispetto all’Italia. Durante gli studi, che ho finanziato grazie a borse di studio, lavoravo anche come assistente di ricerca per mantenermi. È così che ho iniziato a progettare dispositivi per il cervello e ad appassionarmi alla ricerca».
In seguito, vince un premio che le consente di partecipare alla conferenza più importante del settore. Dopo aver presentato il suo lavoro, viene selezionata per un dottorato alla Columbia University di New York. Prosegue poi la sua ricerca al MIT di Boston, dove attualmente lavora sui dispositivi di interfaccia cervello-computer. Infine, dopo mesi intensi di colloqui, tra gennaio e aprile di quest’anno, ottiene una cattedra nel dipartimento di ingegneria elettronica a Yale, incarico che inizierà a luglio 2025.
Il titolo di “Innovator Under 35” del MIT è un traguardo eccezionale. Quale è stata la chiave del tuo successo?
«La chiave del mio successo è stata sicuramente la curiosità, che mi ha sempre spinto a esplorare nuove direzioni e a mettermi alla prova con esperienze diverse. Questa voglia di imparare e fare qualcosa di nuovo è stata un motore fondamentale per tutto il mio percorso. Ovviamente, il duro lavoro è stato una parte importante, ma non posso non sottolineare quanto sia stato cruciale essere in un ambiente stimolante e di supporto. Avere intorno a me persone che credono nel mio lavoro, che mi incoraggiano a migliorare e che mi offrono opportunità per crescere, ha fatto davvero la differenza. E, cosa non meno importante, avere amici e colleghi con cui condividere momenti di leggerezza, magari uscendo e bevendo qualche bicchiere di birra, ha creato un equilibrio fondamentale per la mia crescita personale e professionale. Inoltre, non posso non menzionare il supporto della famiglia e degli amici, anche se oltre oceano, che mi sono sempre stati vicini e mi hanno aiutato a superare i momenti di nostalgia. La loro presenza, anche a distanza, è stata un sostegno essenziale durante tutto il percorso».
In che modo il tuo lavoro con le interfacce neurali potrebbe trasformare la vita quotidiana delle persone?
«Con la mia ricerca ho sviluppato il primo dispositivo di registrazione neurale interamente flessibile, composto esclusivamente da componenti elettronici formati da polimeri altamente biocompatibili e flessibili. Questo dispositivo consente la registrazione di attività neurale ad alta risoluzione e il rilevamento in tempo reale di scariche epilettiche. Questa tecnologia si distingue per l’uso di un sistema di comunicazione basato sugli ioni presenti nel nostro corpo, che non solo è in grado di trasmettere segnali attraverso tessuti ricchi di ioni, come la pelle, ma fornisce anche l’alimentazione (power) necessaria al dispositivo per operare a distanza, grazie a questo sistema wireless. L’assenza di componenti rigidi, comunemente utilizzati nei tradizionali impianti a base di silicio, garantisce stabilità a lungo termine e riduce il rischio di danni ai tessuti biologici. Questi dispositivi, che hanno la dimensione totale di un capello, offrono un’alternativa meno invasiva rispetto ai tradizionali impianti bioelettronici, offrendo soluzioni più flessibili, biocompatibili e performanti, con applicazioni particolarmente rilevanti per il trattamento dell’epilessia».
C’è un messaggio particolare che vorresti dare ai giovani che aspirano a una carriera nel campo della scienza e della tecnologia?
«Il messaggio che vorrei dare ai giovani è che, oltre al tanto lavoro e impegno, è essenziale essere disposti a correre dei rischi e a cogliere ogni opportunità che si presenta, anche quelle che sembrano fuori dalla propria zona di comfort. Nella ricerca e nell’innovazione, non c’è spazio per la paura di sbagliare o per la pretesa di sapere già tutto. Una delle lezioni più importanti che ho imparato è che il progresso si costruisce attraverso tentativi, errori e fallimenti. Ogni errore è un tassello che ti avvicina alla soluzione, e spesso, sono proprio gli esperimenti che non vanno come previsto a generare le intuizioni più innovative. La scienza ti insegna che il fallimento non è la fine, ma una parte del processo. Bisogna essere curiosi e pazienti, pronti a documentare ogni passo e ad imparare dagli sbagli. Ogni errore diventa un’opportunità per migliorare e raffinare le proprie idee. Ma, oltre alla dedizione al lavoro, c’è un altro aspetto fondamentale: avere una vita al di fuori della ricerca. Coltivare passioni, hobby, interessi, e circondarsi di persone con cui poter staccare e divertirsi è altrettanto importante. Non si può lavorare al massimo delle proprie capacità senza prendersi del tempo per rigenerarsi. Avere un buon equilibrio tra vita professionale e personale è essenziale per mantenere la mente fresca e creativa».
Da Cassino a Boston, ti ritieni un cervello in fuga?
«Sono andata via dall’Italia abbastanza presto, subito dopo la triennale, perché mi si è presentata un’opportunità e non perché fossi scontenta in Italia, quindi non mi definirei un “cervello in fuga”. È difficile per me fare un confronto diretto o dire quale sistema sia migliore, poiché ho vissuto solo una parte del percorso accademico italiano. Sicuramente, il sistema americano ha funzionato molto bene per me. Ho apprezzato particolarmente l’importanza che i professori danno agli studenti nelle università americane, già dai primi anni della triennale, e il fatto che gli studenti vengano esposti alla ricerca fin da subito. Questa vicinanza tra docenti e studenti e l’accesso precoce alla ricerca sono aspetti che mi hanno arricchito molto e che considero uno dei punti di forza del sistema universitario americano».
Tuo padre è il sindaco di Vastogirardi, qual è invece il tuo rapporto con il Molise?
«Amo profondamente il Molise e ci sono legata fortemente. Lo frequento assiduamente sin da piccola; da quando avevo un anno, i miei genitori mi lasciavano a casa di mia nonna e mia zia per l’intera estate mentre lavoravano nell’afa e caldo di Cassino. Quelle estati trascorse a Vastogirardi sono tra i miei ricordi più belli. È lì che ho costruito le fondamenta delle mie radici e che ho imparato a riconoscere il valore di un luogo che non è solo geografico, ma emotivo e affettivo. Nonostante la distanza e la mia vita che mi ha portato a viaggiare e vivere lontano, il mio attaccamento al Molise e al mio paese è rimasto immutato, e forse è cresciuto ancora di più. In questa vita in giro per il mondo, Vastogirardi rappresenta per me un punto fermo, una certezza, insieme alla famiglia e agli amici che mi aspettano ogni volta.
È proprio per questo che, anche abitando lontano, torno ogni estate e in occasione delle ricorrenze più importanti. Sento molto vera questa frase di Cesare Pavese, che mi rappresenta profondamente: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”».
C’è qualche innovazione o progetto personale che sogni di realizzare nei prossimi anni?
«Sfruttando la flessibilità e biocompatibilità dei dispositivi che ho sviluppato, il mio obiettivo in futuro è di utilizzarli anche in altri organi sensibili e delicati, come lo stomaco, l’intestino, per studiare in particolare il ruolo del collegamento fra il sistema digerente ed il cervello nei disturbi neurologici. Lo stomaco ha una fitta rete neurale ancora tutta da scoprire e penso che i miei dispositivi siano perfetti per questo tipo di applicazione».
Ma pensi di ritornare?
«Nei prossimi anni dovrò sicuramente rimanere a Yale per insegnare e costruire il mio gruppo di ricerca. Tuttavia, non escludo che in futuro voglia tornare in Italia o almeno in Europa, per essere più vicina alla famiglia».
alessandra longano