immigrati

Poco più di un mese fa, già volontaria della Caritas Diocesana di Isernia-Venafro, ricevevo una telefonata che stava per cambiarmi letteralmente la vita, senza che ne fossi minimamente consapevole. La Comunità di S. Egidio di Isernia mi comunicava l’arrivo in Molise di 40 ragazzi africani, sbarcati sulle coste siciliane (che poi sarebbero diventati 88 e poi ancora di più) e del loro bisogno estremo non solo di beni di prima necessità ma anche e soprattutto di un bene fraterno spesso negatogli. Sono i ragazzi che attualmente alloggiano presso l’Hotel Holiday di Monteroduni, seguiti sia dai volontari della Comunità di S. Egidio, sia dalla Caritas Diocesana, sia da altri volontari. Provengono principalmente da Paesi dell’Africa Occidentale (Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea Bissau, Mali, Nigeria, Senegal).
Sono prevalentemente musulmani e solo cinque o sei di loro sono cristiani. Tuttavia, a prescindere dalla religione di appartenenza, ciascuno ha manifestato un rispetto profondo per essa. Si e ci considerano fratelli, figli dello stesso Padre avente un unico volto, sebbene chiamato in modo differente. Le loro storie sono diverse, eppure assai simili in molti aspetti vissuti nel dramma comune del loro viaggio dalla meta sconosciuta. Ognuno di loro si è ritrovato in balìa di un mare assassino, senza sapere se e dove sarebbe mai sbarcato. Quasi tutti hanno lasciato il proprio Paese di origine in cerca di un lavoro in Libia, per aiutare la famiglia, ma qui hanno trovato una situazione di razzismo spaventosa. Mi è stato raccontato che, quando delle persone di colore giungono in Libia, la polizia stessa le aggredisce con estrema violenza, per poi imprigionarle e picchiarle ripetutamente. Molti hanno raccontato di aver trascorso mesi in prigione ed essere stati percossi fino allo sfinimento, lasciati senza cibo e senza acqua per giorni, per poi essere prelevati e condotti lungo la riva del mare e scaraventati nei barconi sovraccarichi che vediamo giungere in Italia. C’è chi non ricorda con esattezza quante percosse ha ricevuto e per quanto tempo, visto che il troppo dolore e la stanchezza fisica gli hanno fatto perdere i sensi. Altri riferiscono di essere stati per giorni in mare, senza cibo né acqua, ammassati l’uno sull’altro, in lotta fra la vita e la morte. Uno di loro, fra i più giovani, ha ammesso con le lacrime agli occhi che ad un certo punto ha avuto paura di morire e, un attimo dopo, ha visto qualcuno tendergli la mano e tirarlo su da quell’incubo. Senza saperlo, era appena giunto in Italia, un luogo in cui dice di aver finalmente ritrovato se stesso. Nessuno è partito con la consapevolezza di arrivare in Italia, mentre quasi tutti miravano ad ottenere un lavoro in Libia e aiutare così i familiari in difficoltà.
I ragazzi di cui parliamo sono spesso orfani di padre e di madre, figli maggiori di una numerosa prole di cui – nonostante i loro vent’anni – si fanno carico, assumendo il ruolo di capofamiglia. Hanno rischiato di morire pur di trovare il modo di risollevare quanto hanno di più caro al mondo: la famiglia. La mia collaborazione consiste nell’impartire lezioni di lingua italiana ai ragazzi scolarizzati di area anglofona, insieme ad altri volontari che si occupano invece degli scolarizzati di area francofona e dei restanti ragazzi non scolarizzati, di cui gran parte sono analfabeti. Ci siamo ritrovati a lavorare affinché questi nostri fratelli si sentissero ciò che effettivamente sono: persone. Questi ragazzi sono la prova certa che Dio esiste ed è un Dio-Amore, perché sono un vero e proprio mezzo tramite cui arrivare sino a Lui con il nostro operato. Sono la risposta a tutti quegli interrogativi inevasi che ci affollano la mente e danno un senso alla nostra esistenza. La mia collaborazione come volontaria della Caritas Diocesana, con la Comunità di S. Egidio e gli altri volontari, non può e non vuole limitarsi alla mera soddisfazione di bisogni materiali ma mira a spingersi oltre ogni bene tangibile, lasciando un segno indelebile nell’animo di ciascuno di questi ragazzi e non solo. Durante il lavoro preliminare di ascolto, tra le tante domande poste loro, abbiamo chiesto a ciascuno quali fossero i propri sogni e quasi tutti hanno espresso il desiderio di aiutare in ogni modo possibile – anche a costo della vita – la famiglia di origine. Tuttavia, quanto di più significativo potesse capitare a me personalmente è stato l’imbattermi nelle parole di un ragazzo che, alla domanda “Quali sono i tuoi sogni?”, ha risposto così: “Grazie per avermi posto questa domanda perché, da quando è morto mio padre, nessuno più mi ha chiesto se avessi dei problemi e quali fossero i miei sogni […]”. Alla domanda “Cosa ti piace dell’Italia e degli italiani?” mi ha risposto: “Gli italiani mi hanno insegnato che sono un essere umano e che Dio li benedica sempre per questo”. Con ciò chiudo il mio discorso e lascio che siate voi lettori a trarre la conclusione che merita un simile pensiero.

Laura Scungio
*Caritas diocesana di Isernia-Venafro

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