Ruvido, talmente realistico da far alzare il sopracciglio. La storia del foro nei pantaloni dei bimbi di due o tre anni perché non si facessero la pipì addosso se ‘scappava’, per esempio. Inelegante, dice lo stesso Vittorio Feltri. E si riferisce però alla trovata dei genitori.
Genitori del Sud, «il Sud di una volta, il Sud delle mie modeste e indimenticabili vacanze».
Genitori molisani, di Guardialfiera. Dove il direttore (editoriale) di Libero ha trascorso «tre mesi d’estate per almeno due lustri» e ha imparato «perfettamente la loro lingua, un po’ napoletana e un po’ pugliese, assimilata grazie all’amicizia con qualche coetaneo locale con cui trascorrevo interminabili e assolati pomeriggi».
Il ricordo delle vacanze molisane, ruvido ma assolutamente originale, è stato pubblicato ieri nella rubrica ‘La mia estate’.
Niente mare, lo vide per la prima volta a quattro, cinque anni «dal finestrino di un treno, linea Milano-Lecce. La norma era partire la sera alle 22 per arrivare a Termoli (Molise) la mattina verso le 8». E poi «di corsa salivamo sulla littorina che portava a Campobasso, risalendo la valle del Biferno ovvero le Terre del Sacramento, quelle del capolavoro letterario di Francesco Jovine, nativo di Guardialfiera, esattamente il paese dove noi sfigati orobici sopravvissuti alla guerra mondiale, ci stavamo recando». Feltri e la sua famiglia erano ospiti del miglior palazzo di Guardialfiera, di proprietà del feudatario Baranello, i cui beni erano amministrati dal marito di una zia del giornalista. Non c’erano mezzi a motore, in compenso «una grande diffusione di ciucci, asini che da puledri erano (sono) dolci e splendidi, chiamati dal popolo petracchi».
Invece che al mare, andavano al fiume Biferno. «Ci tuffavamo nell’acqua fresca (mossa da una corrente vigorosa) e pulita, sempre trasparente; alcuni la bevevano con voluttà perché su, a Guardia, il prezioso liquido occorreva procurarselo alla fontana, riempiendo tine che, poi, le donne collocavano sulla propria testa e con passo incerto raggiungevano il proprio domicilio. I rubinetti domestici erano sconosciuti, o meglio un lusso inaccessibile causa miseria. La doccia e la vasca da bagno: non c’era anima che sapesse che fossero, roba misteriosa. In compenso la manodopera era pagata in natura: un sacco o due di frumento, da consegnare all’ammasso per ricavare quattro soldi, cinque o sei bottiglie di olio, un po’ di fave e un pugno di spiccioli».
Le Terre del Sacramento: si rivive quella atmosfera nel racconto. Poi il presente: «Una decina di anni orsono tornai a Guardialfiera, invitato dall’amministrazione municipale, e fui accolto dalla banda. Mia moglie ed io volevamo sprofondare. Ma eravamo orgogliosi di essere diventati terroni ad ogni effetto. Ultima ammissione. Non ho mai messo piede nel mare. Mi dicono sia salato. Ne dubito. Chi ci butta il sale, con quel che costa?».
Veder descritta la nostra terra da una persona così autorevole, ma che ha avuto modo di viverci, e in quali tempi, è veramente una cosa unica. C’era autenticità in quel modo di vivere e non poteva essere diversamente, perchè mancava tutto quello su cui è basata oggi la nostra vita quotidiana. Una bella storia da una persona che, poi, di altre realtà ne ha conosciute tante, osservandole e descrivendole con acutezza. Grazie!
Uno di quei ragazzini, che in un paesino poco distante, si accompagnava a quei coetanei che venivano a trascorrere le vacanze estive in paese.