Passi avanti notevoli nella ricerca scientifica: una molecola sperimentale potrebbe diventare il modello su cui basare nuovi farmaci contro la malattia di Huntington, una grave e rara condizione genetica neurodegenerativa che colpisce la coordinazione dei movimenti e porta a un inarrestabile declino neurologico. È il risultato di uno studio condotta dal Laboratorio di Neurogenetica e Malattie rare dell’Irccs Neuromed e pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Human Molecular Genetics.
La molecola spiegano – dal centro di ricerche di Pozzilli – agisce su un recettore legato al metabolismo degli sfingolipidi, e in particolare a quello della sfingosina-1-fosfato (S1P), un lipide essenziale per la sopravvivenza delle cellule neuronali. Studi precedenti condotti dallo stesso laboratorio avevano già dimostrato come gli sfingolipidi giochino un ruolo centrale nella malattia di Huntington.
«Con questa ricerca – afferma Alba Di Pardo,ricercatrice del Laboratorio di Neurogenetica e Malattie rare – riteniamo di avere aggiunto un tassello molto importante. La molecola che abbiamo sperimentato, infatti, si è dimostrata in grado non solo di migliorare la sintomatologia associata alla malattia, ma anche di prolungare la vita media degli animali malati. I benefici del trattamento si sono tradotti anche in una protezione generale della struttura e della funzione del cervello».
Gli esatti meccanismi di azione della nuova molecola restano da studiare in dettaglio, ma sono state individuate due strade attraverso le quali eserciterebbe la sua attività terapeutica nei confronti dei danni indotti dalla proteina mutata responsabile della malattia di Huntington (la Huntingtina). Da un lato, l’azione sul recettore 5 della S1P attiva una serie di processi biologici capaci di proteggere i neuroni. Dall’altro, il farmaco è capace di ripristinare il corretto funzionamento della barriera emato-encefalica. Mantenendo separata la circolazione sanguigna dal tessuto nervoso, questa barriera cellulare è fondamentale per la vita dei neuroni. E, proprio con il lavoro dei ricercatori Neuromed, per la prima volta viene dimostrato che la barriera emato-encefalica può rappresentare un bersaglio terapeutico nella malattia di Huntington.
«Saranno necessarie ulteriori ricerche prima di giungere a una potenziale applicazione terapeutica – commenta Vittorio Maglione, ricercatore dello stesso laboratorio – ma pensiamo che questo studio possa rappresentare una importante base di partenza per nuove strategie farmacologiche contro la malattia di Huntington. Molecole simili a quella utilizzata da noi sono in sperimentazione clinica per altre patologie».