Il vicepresidente della Conferenza delle Regioni, Michele Iorio, è intervenuto in mattinata a Roma, nella sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, come relatore, alla “Giornata nazionale di studio sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro”. L’iniziativa, organizzata dalla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Fenomeno degli infortuni sul Lavoro del Senato, ha visto la  presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ha aperto i lavori il Presidente del Senato della Repubblica, Renato Schifani, mentre sono intervenuti tra gli altri, il Ministro della Salute, Renato Balduzzi, il Presidente della Commissione Lavoro del Senato della Repubblica, Pasquale Giuliano, il Sostituto Procuratore della Repubblica di Torino, Raffaele Guariniello.

Questo il testo dell’intervento del Presidente Michele Iorio:

“Signor Presidente della Repubblica, Signor Presidente del Senato, Onorevoli Deputati e Senatori, Autorità tutte,

Desidero, prima di tutto portare il saluto del Presidente Vasco Errani che – a causa dei molteplici impegni che, nel suo ruolo di Commissario Straordinario per la ricostruzione, lo trattengono in Emilia-Romagna – non può oggi essere qui presente, come avrebbe voluto.

E desidero ringraziare, a nome della Conferenza delle Regioni, la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro, e in particolare il suo Presidente, Oreste Tofani, per questa importante giornata di studio e di approfondimento.

In questa sede voglio fare solo poche annotazioni, anche perché lascerò agli atti un ampio documento approvato nel corso di una recente Conferenza delle Regioni dove sono riportati i dati, le osservazioni sui progressi realizzati, le sottolineature sulle criticità ancora esistenti e le proposte per fronteggiare ancora meglio il cosiddetto fenomeno delle “morti bianche”.

Poche riflessioni per dire, prima di tutto, che non possiamo e non dobbiamo ridurre il tema della prevenzione dei rischi e della sicurezza nei luoghi di lavoro ad una mera questione di competenze. Ci dobbiamo invece interrogare tutti, ad ogni livello, su cosa dobbiamo fare – di più o meglio – per diffondere la “cultura della prevenzione”.

Certo scontiamo decenni di ritardi e disattenzioni amministrative, certo abbiamo di fronte un dissesto idrogeologico di enormi dimensioni, certo abbiamo applicato in ritardo (rispetto ad altri Paesi sviluppati) e non in maniera uniforme sul territorio il rispetto di criteri antisismici per l’edilizia residenziale, per le strutture industriali e per gli edifici pubblici, ma non per questo possiamo arrenderci! Possiamo e dobbiamo andare avanti.

Non possiamo però perdere tempo in polemiche strumentali sull’attribuzione delle competenze. Qui c’è in ballo la sicurezza del lavoro: la salute e la vita dei lavoratori.

Ad esempio quando parliamo di criteri antisismici, non possiamo pensare che questo sia il problema di una Regione o di un Comune: si tratta evidentemente di una questione che coinvolge l’intero sistema Paese. E’ una emergenza dell’Italia. E allora ci si deve interrogare non più sul “livello della competenza”, come se questo potesse poi circoscrivere l’ampiezza o la profondità di ciò che accade e come se questo conseguentemente potesse poi permettere di circoscriverne la responsabilità. Dobbiamo smettere di pensare che ciò che riguarda un comune non abbia valenza per la Regione e ciò che coinvolge una Regione non riguardi lo Stato: è una logica sbagliata.

Far fronte in modo efficace ai rischi del lavoro significa impegnarsi per sviluppare una cultura della prevenzione che attraversa trasversalmente le istituzioni, i sindacati, le organizzazioni che rappresentano le imprese, il mondo della scuola, il volontariato. Partendo dai livelli più vicini al cittadino, per salire poi più in alto quando un singolo comune non ce la fa o non ha i mezzi, quando un’associazione territoriale imprenditoriale ha bisogno di un livello superiore, quando l’attività di una Regione ha la necessità di inquadrarsi in una strategia di sistema, ha bisogno di ritrovarsi e riconoscersi in una comunità nazionale, in uno Stato.

Serve quindi una “partecipazione reale”, fatta di persone e di azioni concrete che vanno stimolate, cercate, supportate, ma non certo imposte dall’alto.

Le leggi ci sono! E sono buone leggi. E’ sul loro funzionamento che dobbiamo piuttosto interrogarci, ma su questo tema tornerò al termine di questo mio intervento.

Se ci interroghiamo in modo pragmatico e senza pregiudizi sulle esigenze della partecipazione – cioè, per essere molto concreti,  su quello che può fare una scuola o un’Associazione di cittadini, una fabbrica o un sindacato, un imprenditore o un dopolavoro –  ebbene allora non possiamo pensare ad un approccio verticistico o centralista. Saranno dunque le istituzioni del territorio che, in prima battuta, dovranno sostenere questi sforzi.

C’è una “parola chiave” su cui concentrare la nostra attenzione, in questa sede e in futuro: Coordinamento.

Abbiamo avviato un’azione incisiva in questi anni. A partire dalla fase di concertazione che ha portato al varo del Decreto legislativo 81 del 2008 per arrivare al Piano Nazionale di prevenzione 2010-2012. E vorrei ricordare che sono stati istituiti in tutte le Regioni i “Comitati Regionali di coordinamento” che hanno già superato una difficile fase di start up. Certo ora si tratta di rendere pienamente operative le funzioni di pianificazione e programmazione. Ma queste strutture stanno agendo sulla base di piani regionali nell’ambito del “Piano Nazionale della prevenzione 2010-2012” con l’obiettivo di ridurre gli infortuni gravi o mortali. Credo che nei due settori che registrano la maggiore percentuale di incidenti seri sul lavoro – edilizia e agricoltura – si siano riscontrati dati molto significativi. Ma più in generale abbiamo registrato un aumento delle aziende ispezionate: erano poco più di 130.000 nel 2008 sono state più di 162.000 nel 2010. La percentuale delle imprese controllate è passata dal 5,37% del 2008 al 6,6% del 2010, andando quindi al di là dell’obiettivo, fissato dallo stesso Piano, di controllarne almeno il 5%. Insomma la verifica dei volumi delle attività dimostra che il sistema nel suo complesso ha garantito i previsti livelli essenziali di assistenza.

Possiamo, dobbiamo fare di più , ma la parola d’ordine è “leale collaborazione”.

Che senso hanno, ad esempio, iniziative di vigilanza assunte unilateralmente a livello centrale? Perché ancora oggi riscontriamo difficoltà a sviluppare un comune sistema informativo? Pensiamo davvero che i dati debbano essere “patrimonio di un ente” e non invece terreno su cui basare l’azione comune della Repubblica, intesa come Stato, Regioni ed enti locali?

Pongo queste domande perché penso che i rallentamenti e le criticità – che pure ci sono – siano dovute  spesso alla scarsa consapevolezza, che si riscontra in ogni livello, di far parte di un sistema policentrico dove ognuno è parte costituiva e responsabile di questa governance. Guardare a questi temi nell’ottica del proprio cortile significa non agire nell’interesse del Paese e, per quello che riguarda la sicurezza nei luoghi di lavoro, vuol dire andare contro gli interessi dei lavoratori. Del resto ci sono esempi positivi della collaborazione Stato-Regioni: penso, ad esempio alle attività di coordinamento e di omogeneizzazione delle pratiche di lavoro, realizzata anche con corsi di formazione e con obiettivi condivisi.

Dunque non occorre una volontà di vertice o un nuovo accentramento, ma una sollecitazione reciproca fra i diversi livelli istituzionali, una collaborazione bidirezionale, il superamento definitivo del più profondo dei mali della nostre istituzioni: l’autoreferenzialità.

Come Conferenza delle Regioni stiamo cercando di fare la nostra parte. Dal varo del decreto Legislativo del 2008 abbiamo fornito il nostro parere a 7 Decreti proposti dal Governo, abbiamo sottoscritto 3 intese e 4 accordi in Conferenza Stato-Regioni e fra questi di particolare rilievo è quello relativo alla formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Non ci nascondiamo certamente le difficoltà, nella consapevolezza però che – pur nella difficile situazione contingente – il tema di una maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro rappresenta un obiettivo comune di Governo e Regioni. E se è condiviso l’obiettivo, comuni devono essere i mezzi e gli strumenti per perseguirlo.

C’è ad esempio il tema delle risorse finanziarie. E qui voglio fare solo due sottolineature. In un momento come quello attuale non sarebbe opportuno superare la duplicazione delle attività di vigilanza evitando controlli non coordinati fra le amministrazioni? Non si spenderebbe di meno e meglio rimettendo tale attività esclusivamente alle aziende sanitarie?

Anche perché vi è evidentemente una stretta attinenza fra la materia più generale della tutela della salute e quella della “tutela e sicurezza del lavoro”. Sarebbe tra l’altro – e uso un eufemismo – “irrazionale” arrivare ad un’asimmetria fra gli interventi nell’uno e nell’altro settore.

E qui arrivo alla seconda sottolineatura che accenno solamente perché rimanda ad un tema più ampio su cui peraltro è in corso in queste settimane un difficile confronto con il Governo.

Pensiamo che sia davvero possibile migliorare i risultati – peraltro incoraggianti – in materia di sicurezza del lavoro con un taglio ed una riduzione drastica delle più generali risorse destinate alla sanità?

Se gli infortuni mortali sul lavoro si sono ridotti – passando dai 2524 del 1978 ai 980 del 2010 (drammaticamente ancora troppi)- forse ciò è dovuto anche all’azione portata avanti in questi ultimi anni, come riconosciuto esplicitamente anche dalla stessa Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro (nella “II relazione intermedia sull’attività svolta” del 23 novembre 2010). Un’azione che occorrerebbe incentivare, forse anche in termini di investimenti e di unità di personale dedicate all’attività di vigilanza.

Concludo tornando al tema: non credo che la questione cruciale sia quella delle competenze. Anzi mi sembra questo un escamotage per non affrontare o rimandare ulteriormente la soluzione dei problemi.

Le leggi ci sono, facciamole funzionare!

Perché questo Paese – quando si trova di fronte ad uno ostacolo – si convince subito di aver sbagliato strada? Perché preferisce tornare indietro, per ricominciare daccapo? Perché dimentica la validità e la lunghezza del percorso finora fatto?

Beh! Questa è, rubando le parole a Giovanni Amendola, un’Italia che non mi piace, che nega la solidarietà che indissolubilmente lega gli individui. E in ambito istituzionale questa solidarietà ha una e una sola traduzione: leale collaborazione.

Se non fossi convinto che esiste però un’Italia migliore e che è maggioranza nel Paese, un Paese che sa che il futuro si costruisce giorno dopo giorno, forse sarei meno ottimista.

Ho avuto invece conferma – anche in esperienze drammatiche – che c’è un Paese che sa affrontare le difficoltà, che ci sono Istituzioni che hanno voglia e volontà di collaborare. Ecco perché perdonatemi, ma la battaglia sulle competenze mi appare obsoleta,  una schermaglia lontana anni luce dalla voglia di fare dei nostri cittadini”.

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