Il freddo, la fame, la paura ma anche la voglia di vivere, i pochi e preziosi istanti di felicità e infine il perdono. Questo, in sintesi il viaggio nella memoria del sopravvissuto Giovanni Tucci, oggi 96enne, ex funzionario regionale in pensione e testimone molisano della follia nazista, che ieri mattina, nella sala consiliare di Palazzo San Giorgio, ha commosso tutti i presenti con la sua testimonianza. «Chi vi parla non è stato un eroe – ha esordito – ero l’ultimo dei ‘soldatini’. Nello scenario della guerra ero una comparsa, uno spettatore che osservava ciò che avveniva». Era giovanissimo il signor Giovanni quando venne fatto prigioniero dai nazisti. Nell’agosto 1943 fu spedito da Roma ad Atene insieme ad altre giovani leve. L’8 settembre fu catturato dai soldati tedeschi e deportato in Polonia. Prima in un campo di concentramento, poi in miniera. Il primo giorno di prigionia compiva 20 anni. Del lager ricorda: «Eravamo circa 30mila uomini concentrati in baracche. Ci nutrivano solo una volta al giorno con una brodaglia fatta di acqua in cui galleggiava qualche foglia di cavolo con accanto un’ombra di patata. Poi ci assegnarono dei numeri. Ci spogliarono dell’identità, non eravamo più persone, ci chiamavano “stücke” che significa ‘pezzi’ e come tali ci trattavano».
Da lì poi la ‘selezione’ e il trasferimento in miniera. «Ricordo una nicchia in cui c’era la statuina di Santa Barbara, protettrice dei minatori. Ogni galleria che attraversavamo era sempre più fredda, piccola e meno illuminata della precedente. Il lavoro era faticoso e noi eravamo giovani, spaventati ed impreparati».
Quei tunnel sotto terra furono la sua casa per circa due anni. Una delle sofferenze più grandi era la mancanza di cibo. «Oggi facciamo un uso improprio della parola “fame” – ha spiegato – quando diciamo “ho fame” in realtà intendiamo “appetito”. La fame è un’altra cosa. È un tarlo che scava nel profondo e che colpisce non solo lo stomaco ma anche la psiche».
In quell’incubo spunta poi qualche raro ricordo felice come le chiacchierate su Manzoni insieme ad un giovane ebreo o come quella volta che udì un accento particolare, quasi familiare. Era un contadino di Montagano. Era analfabeta e voleva scrivere alla moglie. Così Giovanni scrisse al posto suo una cartolina informando la donna che il marito era insieme ad un giovane campobassano e che stavano bene. Cartolina che successivamente la donna portò a casa del papà di Giovanni per informarlo.
«Ricordare quei giorni per me è delicato perché mi hanno derubato dei miei 20 anni. Ma non ho rimpianti. Hanno scavato nella mia mente solchi con ricordi indelebili, belli e brutti. Ma quelli brutti per fortuna si dimenticano. Ricordo ancora oggi i volti e i nomi dei miei compagni. Se mi concentro sento ancora la loro voce».
Poi, finalmente, la fine dell’incubo. «Il 27 gennaio del 1945 vidi che i cancelli erano aperti. Le sentinelle tedesche erano scappate. Ricordo di aver avuto paura. Poi però arrivarono i russi e capimmo che saremmo tornati a casa.
Questa esperienza – ha aggiunto – mi ha segnato nel profondo e mi ha insegnato che la guerra non la vince mai nessuno». Sessant’anni dopo il signor Giovanni è tornato in Polonia, ad Auschwitz. Davanti a quel cancello, però, ha provato di nuovo paura. Si è inginocchiato e ha pregato per chi non ce l’ha fatta. «Ho avuto i brividi visitando il museo, non tanto per le ciocche di capelli e per i vestiti esposti ma per la montagna di scarpe accumulate. Più di tutto per le ciabattine dei bambini che da quel giorno non hanno potuto più saltare».
Il messaggio del signor Tucci è più attuale che mai. E proprio in riferimento all’emergenza umanitaria alla quale stiamo assistendo ha aggiunto: «Dobbiamo essere più umani e comprensivi nei confronti degli altri. L’odio non produce nulla di buono. Insegniamo dunque ai nostri figli il valore del rispetto e della tolleranza. La pace è come una piantina che va nutrita tutti i giorni con i nostri sentimenti».

SL

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