We’re the last generation. Questa la presa di coscienza dei millennials che ieri hanno aperto gli occhi al mondo. Il clima cambia e sta avendo effetti disastrosi come mai registrati. Nel frattempo gli scienziati avvertono: ci restano 12 anni di tempo per fermare il cambiamento climatico.
Eravamo rimasti all’8 ottobre 2018. Una data che segnò la drastica presa di coscienza della specie umana sui danni che stava arrecando al pianeta Terra. Una data ai più sconosciuta o dimenticata: è stato il giorno in cui gli scienziati di tutto il mondo ci hanno dato un ultimatum. «Ci restano soltanto 12 anni», questo era il fulcro dell’imponente ricerca redatta da 90 fra i migliori scienziati di tutto il mondo, report condotto dall’Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change, in cui si spiegava come da oggi al 2030 i danni sarebbero stati irreversibili senza una istantanea retromarcia.
Prima di quella data, il 2015: quando a Parigi 200 Paesi diversi siglarono il più importante accordo sul clima mai redatto. Paesi che si obbligavano vicendevolmente a ridurre drasticamente l’uso dei combustibili fossili e di adottare misure contro il surriscaldamento globale. Per la prima volta in via ufficiale, il più vasto numero di capi di Stato riconosceva pubblicamente i danni che l’uomo aveva arrecato al pianeta. Per la prima volta si affermava con voce univoca che il surriscaldamento globale era un fenomeno in cui l’uomo c’entrava più di quanto prima si pensasse.
Dopo il 2015, l’elezione di Donald Trump aveva sconvolto il fragile equilibrio raggiunto dall’accordo di Parigi. Sue le frasi quali «Il surriscaldamento globale è un’invenzione dei cinesi», «Agli Usa farà bene un po’ di riscaldamento globale». Ma sfortunatamente il surriscaldamento globale era una realtà ormai nota ed accettata e stava già facendo danni mastodontici: nel biennio 2017-2018 è stato stimato che la temperatura globale ha superato già di 1 grado la temperatura dell’era pre-industriale. Mentre per le specie in via d’estinzione come gli orsi polari il rischio è quanto mai acutizzato dal surriscaldamento. Niente da fare, con la venuta di Trump l’America è uscita dal siglato accordo di Parigi.
Si era quindi stabilito nella capitale francese di porre un freno all’aumento della temperatura del globo, cercando di non sforare la radicale soglia del +2°C, punto di non ritorno. Ma poi il report dell’Ipcc che è andato a peggiorare la situazione: non 2 gradi, bensì 1,5 rappresenterebbe l’aumento irreversibile. Dunque la necessità di riprogrammare gli accordi.
Ma cosa accadrebbe se entro 12 anni non si agisse? Un nuovo studio, pubblicato lunedì scorso sulla rivista Pnas afferma che se il riscaldamento globale continuasse a essere ignorato nel 2030 la Terra potrebbe tornare alle condizioni di 3 milioni di anni fa. In quel periodo, il Pliocene, le temperature erano più alte di 2-4 gradi, il livello del mare era più alto di circa 20 metri rispetto a ora e le calotte polari erano molto più piccole.
Non soltanto lo sconvolgimento dei principali ecosistemi globali, ma anche il mutamento di equilibri della natura intera così come la conosciamo oggi.
Sebbene le previsioni non possano darci una immagine precisa di quello che accadrebbe, si dà già per scontato che superando i 2 gradi, scomparirebbe il 99% delle barriere coralline del pianeta, la terra ferma andrebbe gradualmente ad erodersi generando un nuovo fenomeno migratorio legato solo ed esclusivamente al surriscaldamento. Si sa per certo che il livello del mare potrebbe aumentare dagli 8 ai 40 centimetri, facendo scomparire città e lagune intere.
Nel 2018 sono stati colpiti da terremoti, inondazioni, tsunami o incendi 61,7 milioni di persone, con 10.733 vittime. Nell’anno scorso Europa e America hanno registrato un tasso di incendi mai così grave, con la Grecia che ha subito l’incendio con il maggior numero di vittime mai avvenuto in Europa. L’inquinamento atmosferico è la principale causa di malattie e provoca tra 6 e 7 milioni di morti premature con perdite economiche stimate in 5mila milioni di dollari all’anno.
Ieri però si è accesa una speranza che si chiama Greta Thunberg. Lei e le centinaia di migliaia di ragazzi che hanno inondato le principali piazze del mondo sotto lo slogan #Fridaysforfuture. Lei, Greta, attivista ecologista svedese, che da un anno ogni venerdì si reca sotto il parlamento svedese con un cartellone con su scritto Skolstrejk för klimatet. Lei che ha scosso i politici di tutto il mondo a Davos, a gennaio di quest’anno. Lei, infine, che è diventata l’emblema di questo ‘68 ecologista che oggi aprirà gli occhi del mondo.
Le piazze stracolme, all’Italia il primato: con 235 eventi è il Paese con più cortei al mondo.
La salute del globo è in gravi condizioni, la Terra è malata. Lo scenario è grave, se non apocalittico. I ragazzi di tutto il mondo lo sanno e sanno anche che sono stati lasciati da soli a condurre una battaglia generazionale. Perché la colpa di un globo malato non può essere che delle generazioni che ci hanno preceduto negli ultimi 50 anni. C’è ora il bisogno di rimboccarsi le maniche ma resta una consapevolezza: da un lato la necessità di un impulso politico attivo per la salvaguardia del pianeta e dunque del futuro dei più giovani. Dall’altro la necessità della conoscenza del tema. Ieri essere nelle piazze è stato il gesto più bello e più rivoluzionario che i giovani avrebbero potuto fare, soprattutto considerando i numeri delle partecipazioni: centinaia di migliaia soltanto in Italia. Dispiace vedere un Molise fanalino di coda, dove a scioperare per il futuro della specie umana e per il pianeta sono stati pochissimi ragazzi.
Qualcuno avrà poi detto che scioperare era inutile, qualcuno avrà asserito dicendo che manifestando non si abbassa la temperatura del globo. Ebbene, la temperatura del globo potrà anche non abbassarsi, ma manifestare oltre che essere la più alta espressione della libertà civile di un Paese democratico, oltre che essere l’affermazione di un focolare di ideali vivi (che in questo momento storico non è poco, soprattutto per le giovani età), è anche e soprattutto il modo più diretto con cui si comprende di non essere soli in una battaglia. Manifestare potrà anche non cambiare le cose nell’immediato, ma genera sicuramente una comunità coesa con la voglia di cambiare, e proprio questa comunità sarà la spinta propulsiva per il mutamento.
Ma in ogni caso scioperare non basta, da oggi c’è bisogno di studio. Questo ciò che mi ha colpito leggendo l’amaca di Michele Serra: non basta “essere contro” per cambiare le cose, non basta avere buoni sentimenti. Se dici “le cose vanno male” devi poi essere in grado di spiegare, almeno per sommi capi, perché lo dici. Se attribuisci il riscaldamento del pianeta alle attività umane devi cercare, sempre per sommi capi, di documentare quali sono le attività produttive più viziose, quali le più virtuose.
Dunque sì urlare al mondo che le cose vanno male, ma anche studiare, miei cari amici, perché soltanto così ci costruiremo il futuro che ci spetta.
Michele Messere

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