Più Europa, meno Regioni. Confindustria commenta le stime allarmanti dell’Ocse che pure il centro studi dell’associazione ha riscontrato e a un mese e poco più dal voto per il Parlamento di Strasburgo spezza una lancia a favore dell’Ue.
A parlarne con Primo Piano è il vicepresidente di Confindustria Molise Massimo Giaccari.
Vicepresidente Giaccari, il Centro Studi Confindustria e l’Ocse hanno divulgato di recente i dati sulle stime di crescita dell’Italia nel 2019, evidenziando un chiaro rallentamento del Paese, confermato anche dal ministro dell’Economia Tria. Questo scenario la preoccupa?
«Certamente. Le recenti stime sul quadro congiunturale dell’Italia preoccupano fortemente Confindustria e pertanto avvertiamo ancora di più l’urgenza che il governo vari delle misure che ridiano fiato all’economia in stallo. “Quota 100” e “reddito di cittadinanza” non servono a dare impulso alla crescita e gonfieranno il deficit dell’Italia, allontanandoci dal parametro debito/pil al 3% che resta una prerogativa imprescindibile per stare in Europa».
Dunque la ripresa è ferma, la produttività è debole da troppi anni, il tenore di vita dei cittadini è lo stesso dal 2000 e le grandi disparità regionali si sono ampliate. Tutto ciò a chi va imputato?
«Alla incapacità dei governi italiani di fare le riforme che l’Europa ci ha chiesto negli ultimi anni. Abbiamo scelto di stare in Europa perché crediamo nel valore dell’Unione, ma abbiamo delle regole e dei parametri da rispettare. Affinché ciò sia possibile, occorre che il governo si rimbocchi le maniche e faccia partire finalmente lo “sblocca cantieri” e il “decreto crescita”. È necessario, poi, varare subito delle riforme che migliorino il nostro sistema fiscale affinché non sia più una gabbia per l’economia. Non basta la mini flat tax per le partite iva. Abbassare le tasse ad una piccola fetta di contribuenti non porta da nessuna parte, come gli 80 euro di Renzi!».
Avete per caso cambiato opinione su Renzi? Eppure sul referendum del 4 dicembre, ce lo ricordiamo bene, la vostra organizzazione si è spesa molto!
«Assolutamente no! Parlavo degli 80 euro, che tra l’altro questo governo non ha neanche abolito. Comunque non è una questione di “nomi” ma di riforme messe in campo! Non abbiamo affatto cambiato opinione sulla validità su alcuni temi proposti nel mega quesito referendario. Erano e restano urgenti delle riforme che rendano l’Italia un Paese più governabile e nello stesso tempo unito come una vera grande nazione. Penso soprattutto – alla luce del dibattito sull’autonomia differenziata richiesta da Veneto, Lombardia e da molte altre Regioni – alla revisione del Titolo V della Costituzione. Nel quesito referendario da noi sostenuto, insieme a tutti gli altri punti, si prevedeva una riduzione dell’autonomia delle Regioni, restituendo allo Stato centrale la competenza esclusiva su quasi tutte le competenze concorrenti. Tema per noi attualissimo perché abbiamo bisogno di “più Europa e meno regioni».
Perché avremmo bisogno di “più Europa” se oggi nel Paese dilaga uno spirito sovranista con Bruxelles e autonomista a livello locale?
«Guardi… ciò che ha descritto rappresenta lo scenario schizofrenico nel quale oggi questo Paese si trova. Da un lato, infatti, chiediamo, giustamente, di essere ascoltati e appoggiati in Europa (penso al tema dell’immigrazione, così attuale, e alle legittime richieste di solidarietà avanzate da questo governo a tutti i Paesi europei non toccati direttamente dagli sbarchi), dall’altro (penso al referendum proposto da Veneto e Lombardia) chiediamo di aumentare l’autonomia delle regioni. È chiaro che questa rivendicazione, comprensibile sotto certi aspetti, aumenterebbe le divisioni all’interno del nostro Paese, lasciando indietro chi è già dietro, cioè il Mezzogiorno. Una nazione che si proclama tale perché riconosce il valore dell’unità nazionale non può nemmeno pensare di concedere maggiori autonomie alle singole Regioni, perché ciò aumenterebbe le divisioni interne, quelle tra Nord e Sud del Paese e le diseguaglianze tra i cittadini italiani, oggi già belle evidenti sul piano della sanità, della scuola, della sicurezza e di tanti altri servizi essenziali alla cittadinanza».
E allora perché tante Regioni, anche meridionali, si sono espresse a favore dell’autonomia differenziata?
«Perché le classi dirigenti sono rimaste legate alla vecchia logica di “più risorse, maggiori capacità di spesa, migliori servizi”, un paradigma sbagliato e smentito nella sua efficacia dal disastro che quasi tutte le regioni hanno creato sulla sanità. Occorrerebbe tutto il contrario: riportare le competenze al centro, cioè in capo allo Stato, per garantire a tutti i cittadini gli stessi livelli di spesa e di efficienza dei servizi. E poi resta vitale la questione della competitività. Oggi si compete globalmente: le nostre imprese, che si trovino a nord o a sud del paese, devono operare sul mercato mondiale e, affinché la sfida sia vinta, devono poter far riferimento ad uno Stato centrale e non alle pubbliche amministrazioni locali, dove le competenze su materie fondamentali come la sanità, l’ambiente, l’energia, le infrastrutture, la politica industriale, la scuola e la formazione, la promozione non consentono di offrire a imprese e cittadini servizi uniformi a prescindere dalla appartenenza territoriale. Con questo “regionalismo” noi che operiamo a Sud saremo sempre svantaggiati rispetto ai colleghi del Nord. Il problema, come abbiamo da tempo sostenuto, non è quello delle risorse finanziarie, come erroneamente si sostiene, ma quello delle risorse umane, delle competenze e delle professionalità che determina una fortissima differenza tra le regioni più ricche e quelle in ritardo».
Cosa spera per il prossimo futuro?
«Mi auguro che, passate le elezioni del 26 maggio, si torni a parlare della realizzazione delle grandi opere già in cantiere, come la Tav, e delle infrastrutture in generale, del problema del costo del lavoro troppo elevato a fronte di buste paga spesso insufficienti a sostenere il fabbisogno delle famiglie, della diminuzione degli investimenti e così via, recuperando nel contempo la consapevolezza che occorre restituire al Paese la sua dignità di Stato unitario in un’Europa più forte! L’Ue è la nostra dimensione moderna per affrontare la globalizzazione. Sarebbe un bene, allora, per l’Italia superare l’assetto regionalistico e riposizionarsi in Europa con la dignità di essere tra i Paesi fondatori che hanno voluto l’Unione credendo nel vantaggio assoluto di stare insieme”. È l’unico modo, questo, per crescere in maniera uniforme ed equilibrata!».
ppm