Sono fiero di essere stato amico di Sergio Genovese, un gigante in un mondo di nani.
Sergio, la cui scomparsa mi provoca un dolore immenso, era una persona perbene, un galantuomo. Puntiglioso, spigoloso, intransigente. Talvolta perfino “pesante”. Ma nei nostri frequenti scambi di opinioni non mi ha mai concesso l’opportunità di potergli dare torto. Aveva ragione, sempre. E ne aveva da vendere, quando, incazzato con tutti e tutto, randellava anche da queste colonne a destra e a manca. Senza pietà.
Educatore vecchio stampo, dotato di una sensibilità fuori dal comune, proprio non sopportava lo stato di incuria in cui versa la gloriosa “Casa della scuola” o il destino toccato al Mercato coperto di Campobasso. La fine dell’Ariston o del Roxy.
Soffriva alle scene impietose della scuola che “pubblicizza” i suoi “prodotti” per accaparrarsi iscrizioni. Soffriva davanti alle tante, troppe, ingiustizie di una regione che riesce a rendersi imbarazzante anche nel fare quotidiano. Il suo cuore scoppiava di rabbia quando si occupava del devastante e dilagante consumo di alcol e droga tra i giovani.
Sergio era fatto così: non riusciva a trattenere le emozioni. Sergio le cose non le mandava a dire, nel bene e nel male.
Il “preside” Genovese se n’è andato troppo presto sconfitto da una malattia che con lui ha avuto vita difficile. Ha combattuto come un leone, così come ha combattuto per tutte le cose in cui credeva.
Mi mancherà e sono certo che mancherà anche ai nostri lettori. Mancheranno i suoi scritti, i suggerimenti. Mancheranno le critiche mosse sempre nell’interesse generale nel tentativo di sollecitare le coscienze, di migliorare le cose, di combattere l’apatia e la rassegnazione.
Mancheranno i suoi racconti, le storie della Campobasso degli anni fiorenti, dei successi nel calcio.
Mai scontato e banale, mi confidava che scrivere era una terapia, lo aiutava a sopportare e superare il dolore. Sergio era capace di rendere poesia un viaggio in treno di 50 anni fa dal capoluogo alla costa. Il racconto di una gara sul terreno del vecchio Romagnoli, quando il campo era in carbonella e scendeva qualche goccia di pioggia, suscitava il sapore autentico di una domenica del tempo andato: era come avvertire nelle narici l’odore acre della polvere mossa dal pallone.
Ho sentito Sergio affaticato ma mai domo, provato ma mai arrendevole. Stanco ma pieno di entusiasmo come un bimbo che per la prima volta partecipa ad una gara ufficiale.
Il suo unico desiderio era provare a lasciare un luogo migliore ai suoi studenti, a chi un giorno abiterà il Molise.
Da Natale giro con una bottiglia di Ferrari in auto, dovevo passare a salutarlo per brindare non so a cosa. Alla vita, alla guarigione, alla sua testardaggine. Forse voleva essere una forma di riconoscenza per quanto fatto per me e per Primo Piano.
Quella bottiglia la stapperò e brinderò con i colleghi della redazione, perché sono certo che lui avrebbe voluto così. Come sono certo che mi manderebbe letteralmente a quel paese se leggesse quanto ho scritto.
Sergio non amava i complimenti, le cerimonie, le frasi di circostanza.
Sergio era autentico, vero. Era testa e cuore.
Sergio non se n’è andato, perché chi lascia traccia del suo passaggio vive per sempre.
Sergio – mi correggo – non è stato sconfitto dalla malattia, perché l’uomo che combatte non perde mai.
A Sergio dico grazie per il tempo che mi ha concesso, per i consigli, gli stimoli. Per i numerosissimi editoriali scritti (l’ultimo il 9 febbraio scorso), da cui ho sempre preso spunto per riflettere, ragionare, per migliorare.
Certo di interpretare i sentimenti dei lettori, rivolgo un sentito e commosso pensiero – anche a nome degli editori e di tutto il corpo redazionale – alla sua amata Piera, alla adorata figlia Danila e alla splendida nipotina Ariya.
E già lo immagino, il prof, nelle distese del paradiso a insegnare la vita pure agli angeli e ai santi.
Quanto dolore hai provocato, amico caro, tu nemmeno lo immagini.
Grato, sempre e per sempre.
Luca Colella