Venti storie che raccontano la vita del territorio dal dopoguerra ad oggi. Venti storie che hanno lasciato il segno e tracciato un solco indelebile nel contesto sociale, politico, culturale, sportivo ed economico della provincia di Isernia ed in particolare a cavallo tra Molise e Abruzzo.
In una sala consiliare di Palazzo San Francesco gremita in ogni ordine di posto, presentato il volume ‘Personaggi Altomolisani’ curato dal giornalista Italo Marinelli. All’evento, tra gli altri, presenti il sindaco di Agnone, Daniele Saia, l’assessore alla Cultura e vice – sindaco, Giovanni Di Nucci, l’assessore regionale Michele Iorio, il consigliere regionale, Andrea Greco, il presidente dell’Ordine dei giornalisti molisani, Vincenzo Cimino, oltre a diversi protagonisti intervistati dalla sagace penna del pediatra prestato al mondo dell’editoria. L’iniziativa del libro resa fattibile dalla sensibilità dell’ex manager Enzo Carmine Delli Quadri, che ha inteso donare il ricavato delle vendite al mensile cartaceo l’Eco de l’Alto Molise edito dal 1981 dal Cenacolo Culturale Camillo Carlomagno. Ma ecco cosa replica l’autore ad alcune domande.
Come nasce l’idea di intervistare i venti personaggi.
«Direi che è merito tuo. Parlando con te, più giovane di una quindicina di anni mi sono accorto che tante figure, tanti episodi, tante storie che avevano segnato la vita pubblica del territorio ti erano quasi del tutto sconosciute. La tua generazione ignorava fatti che per me erano fondamentali: un patrimonio di ricordi che rischiavano di perdersi definitivamente».
La prima intervista?
«Quella a Felice Mitri, per tutti Feliciotto. È venuta bene e abbiamo deciso di continuare. Ne abbiamo pubblicate venti, che sono raccolte in questo libro. Ho iniziato quasi per gioco ma è finita con l’iscrizione come pubblicista all’Ordine dei Giornalisti, quasi un secondo mestiere. Di questo ringrazio te, Vittorio Labanca, Vincenzo Cimino che mi avete accolto nelle pagine de l’Eco e nella grande famiglia dei giornalisti molisani».
Quali le motivazioni che ti hanno spinto a fare le interviste?
«Tante. Prima di tutto il divertimento. Lo faccio perché mi piace. Ma c’è qualcosa di più profondo, di più serio. Da 12 anni ho lasciato la mia terra per una scelta di vita e professionale ma il mio legame con Agnone è rimasto fortissimo. Le interviste e la collaborazione con L’Eco dell’Alto Molise mi hanno permesso di ritrovare e rinnovare le mie radici».
E poi?
«Sono state un modo per fare i conti con me stesso, con il mio passato. Come molti della mia generazione ho vissuto un lungo periodo di impegno politico a sinistra in maniera totalizzante. Noi ci sentivamo i rappresentanti, militanti si diceva con un termine guerresco, del bene contro il male, rappresentato di volta in volta dai democristiani, dai fascisti, dai capitalisti. Una visione manichea che tarda a morire persino oggi che non ci sono davvero più giustificazioni storiche, ma che ho del tutto superato. Ho sempre rispettato gli avversari ed evitato polemiche ed attacchi personali, che peraltro non mi sono mai stati risparmiati, ma ora mi rendo conto che c’è qualcosa di più importante delle buone maniere: il pieno riconoscimento delle vite e delle ragioni degli altri, la comprensione delle loro esistenze, l’empatia, la consapevolezza di condividere una condizione
umana che alla fine ci vede tutti uguali, fratelli e sorelle, nel bene e nel male».
Perché l’intervista per raccontare una storia?
«Mi piace fare un passo indietro, dare voce a chi mi parla senza mediazioni o idee preconcette. Ho sempre intervistato persone per cui nutro rispetto, stima e simpatia, distillando il buono ed il meglio di quanto potessero testimoniare a me ed ai lettori. Di cattivi incontri con tipi sgradevoli, arroganti, prepotenti, maleducati se ne fanno tanti nella vita quotidiana per i più svariati motivi: andare a cercarli mi sarebbe sembrato troppo. Anche se ne comprendo il valore e a volte la necessità non mi piace il giornalismo investigativo, fatto di accuse, domande incalzanti,
aggressività; le inchieste giudiziarie dovrebbe farle la magistratura, possibilmente lontano dai riflettori e dalle telecamere».
Tante storie.
«Ognuno di noi ha qualcosa da raccontare. Soprattutto chi ha vissuto un periodo storico, quello del secondo dopoguerra e della ricostruzione, in cui sono serviti tanta forza e coraggio per far sollevare l’Italia dalle macerie di un terribile conflitto. Erano donne e uomini portatori di valori, di identità e ideologie forti. Avevano un posto nella storia e nella società, ne erano orgogliosi e consapevoli. Oggi è tutto più difficile, a dispetto delle condizioni economiche e delle infinite possibilità a nostra disposizione. Lo specchio si è rotto, mancano i punti di riferimento, non riusciamo più a riconoscere noi stessi. Forse una mano per ritrovare una strada possono darcela proprio loro, i nostri antenati. E non dobbiamo dimenticare di essere dei nani sulle spalle di giganti».
Perché fare un libro, non ce ne sono già tanti?
«Leggere insieme queste storie e poterle confrontare rappresenta un valore aggiunto, la possibilità di realizzare un ritratto collettivo di una società che ci aiuta a comprendere da dove veniamo e dove possiamo andare. Per questo ho accettato di buon grado la proposta di Enzo Carmine Delli Quadri di pubblicarle nella sua collana ‘I Tesori dell’Altosannio’. Gli intervistati sono venti, ma nel libro ci sono tantissime altre persone. Mi ha colpito, preparando l’indice dei nomi citati, la quantità e la qualità delle persone citate degli intervistati. Ognuno di loro, immerso com’è stato in una robusta rete di relazioni sociali, fa dei nomi, ricorda amici, avversari, maestri. Ci sono tanti agnonesi, ma anche politici nazionali, artisti, intellettuali, a testimonianza del fatto che la nostra comunità non si è mai chiusa completamente su sé stessa, restando degna del nome di Atene del Sannio. Qualche nome ricorre in più interviste: sono quelli che più di altri hanno segnato la nostra storia».
Come hai proceduto nel lavoro di intervistatore?
«Non ricorro assolutamente a domande scritte, preparate in anticipo. Non uso mai registratori che congelerebbero il rapporto umano e provocherebbero imbarazzo. Al contrario faccio sempre delle foto, rappresentano un ricordo. Una intervista non è un interrogatorio. Preparo una bozza di temi
ma più che interviste faccio dei colloqui, possibilmente a casa dell’intervistato o nel posto di lavoro. Anche come medico, sono uno dei pochi rimasti a fare visite domiciliari, perché credo che visitare una persona nell’ ambiente in cui vive possa essere utile per conoscerla e quindi curarla meglio. Prendo appunti sui quadernoni delle case farmaceutiche, con una grafia così brutta che a volte stento a comprendere quello che ho scritto e sono costretto ad andare a memoria. Mi affido alla spontaneità, al rapporto diretto, al potersi guardare negli occhi. E’ stata una esperienza umana molto profonda, a volte commovente, entrare nella vita di tante persone. Tutti si sono aperti con grande disponibilità ed ognuno mi ha regalato un affresco della propria vita condividendo pensieri, speranze, emozioni. La cosa difficile è sintetizzare tutto in due cartelle, ma credo di esserci riuscito quasi sempre. L’intervistato legge il risultato direttamente sul giornale, nessuno mi ha chiesto di
sapere in anticipo quello che avevo riportato. Tutt’al più abbiamo fatto una revisione del testo, come nel caso di Ruggero Di Lollo, attentissimo ad ogni particolare, ad ogni virgola».
Farai altre interviste di questo genere?
«Certamente, ci sono ancora tante storie e tante vite da raccontare. E la mia curiosità, il mio interesse sono insaziabili. La scrittura è un po’ una sfida al passare del tempo: sappiamo che alla fine, comunque vada, vincerà lui ma ogni pagina stampata, se scritta bene, ci regala l’illusione o la speranza che di noi possa restare qualcosa. L’intenzione è dare alle stampe una nuova edizione arricchita da nuove vicende su cui già sto lavorando».
Insomma, alla prossima doctor, o meglio collega!
mdo