Il 19 luglio, da ormai 32 anni, è una di quelle date impresse nella mente di tutti gli italiani, al pari del 23 maggio, sempre del 1992. Nell’arco di 57 giorni furono uccisi i giudici che istruirono il maxiprocesso a Cosa Nostra, prima Giovanni Falcone (con la moglie e 3 agenti di scorta), quindi Paolo Borsellino (con altri 5 poliziotti). Un pomeriggio infernale, che fece ripiombare il Paese nel caos, ma quell’atto così efferato, con un quartiere messo a ferro e fuoco a Palermo, fu l’inizio della fine del potere dei corleonesi. Peraltro, alla strage di via D’Amelio si collegano episodi che hanno segnato e lacerato anche i rapporti tra apparati dello Stato e Magistratura. Il criminologo molisano Vincenzo Musacchio, a cui abbiamo chiesto di intervenire per tenere sempre accesa la fiaccola della memoria, descrive aspetti particolari di questa mattanza.
«Strage di Via D’Amelio, trentadue anni fa. Sei morti: Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, Emanuela Loi, Claudio Traina, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano, purtroppo, ancora senza un vero colpevole”. Resta il ricordo della sua onestà, della sua dedizione al lavoro e del suo alto senso dello Stato, quello vero e non la parte marcia e deviata che l’ha ucciso. Restano poche persone che cercano di portare il suo esempio e quello di tantissime altre vittime di mafia nelle scuole e nella società civile evitando che si parli di loro solo nelle ricorrenze e poi ritorni l’oblio. Per quel poco che ho potuto ascoltarlo racconto che era una persona umile e generosa. Nel luglio del 1991 venne in Abruzzo, lo ascoltai ed ebbi la fortuna di potergli stringere la mano. Parlò dei rapporti tra mafia e politica anticipando molti temi poi divenuti attuali. Di Paolo Borsellino mi è sempre rimasto impresso un duplice dettaglio: il primo, la sua stretta di mano molto forte che concesse a tutti i partecipanti al convegno che erano andati a salutarlo e il secondo che in quell’occasione accese tantissime sigarette, a volte ne accendeva una con quella che stava per finire. Sentire le sue parole quando disse: “So che la mafia vuole la mia morte come quella del mio fraterno amico Giovanni Falcone ma penso che se moriremo non sarà solo per volere della mafia ma per una serie di concause che vanno dal nostro isolamento fino alla complicità delle istituzioni colluse e corrotte”. Rimasi in silenzio e oggi comprendo tante cose in più rispetto ad allora. Nel ricordare Paolo Borsellino voglio lanciare un messaggio ai tanti giovani. Abbiate non solo speranze ma soprattutto consapevolezza e determinazione in voi stessi, nel fare, nell’agire, nell’essere protagonisti del vostro destino. Il grande valore della libertà della persona deve essere il perno centrale della vostra convivenza civile bilanciato con gli altri diritti e adeguato al variare della situazione concreta ma sempre nel rispetto delle regole democratiche e pluralistiche che presidiano la nostra Costituzione. Antonino Caponnetto mi diceva sempre: “L’istruzione taglia l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa”. Perciò vi dico: studiate, studiate, studiate! Seguite tra i tanti esempi anche quello del compianto Paolo Borsellino».

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