Ritenendo in mano il materiale documentario per la conversazione che ho tenuto il 20 marzo presso la sede del “Nostro Quartiere San Giovanni” sul Teco vorrei, il famoso inno del Venerdì Santo a Campobasso, mi sono imbattuto in una scoperta.
Com’è noto, autore del Teco vorrei, su versi del Metastasio, è il musicista campobassano Michele De Nigris. Il quale è autore anche della intera Via Crucis, sempre su versi del Metastasio, che si canta solennemente tutti i venerdì di quaresima nella chiesa di Santa Maria della Croce, e tutte le domeniche di quaresima in cattedrale. Ed è autore altresì dell’Inno all’Addolorata (Oh di Gerico beata), popolarmente detto Zuchetezzù, il quale, come ogni anno, è riproposto a Santa Maria della Croce nelle sette sere antecedenti la ricorrenza dell’Addolorata, che quest’anno cade proprio oggi venerdì 22 marzo 2024, antivigilia della Domenica delle Palme.
Bene, proprio in riferimento a questo monumentale Inno all’Addolorata, è saltato fuori un importante documento del 1845 che ho presentato in anteprima a conclusione della ricordata conversazione. In data 2 agosto 1845 il settimanale torinese “Teatro universale”, la prima rivista illustrata italiana, edita dal famoso tipografo Giuseppe Pomba che di lì a pochi anni avrebbe fondato la Utet, pubblicava il testo dell’Inno musicato da D. Filippo Mazzarotta, su versi del poeta Ambrosio Pagani: due maggiorenti campobassani non del tutto sconosciuti, come vedremo, i quali centottanta anni fa pubblicavano all’estero, perché Torino, allora era estero, capitale del Regno di Sardegna, con buona pace del luogo comune dell’isolato Molise, allora parte del Regno delle Due Sicilie, chiuso al mondo.
Ma chi sono il poeta Pagani e il musicista Mazzarotta. Sicuramente due artisti non professionisti. Di D. Filippo Mazzarotta, del quale il settimanale non riproduce la musica, sappiamo che è il nipote del nonno omonimo che nella prima metà del Settecento fu il benefattore del giovane Paolo Saverio Di Zinno, permettendogli l’apprendistato a Napoli da cui avrebbe tratto frutti copiosi di scultore e di geniale meccanico, ideatore dei Misteri. Sappiamo inoltre che fu sindaco di Campobasso nel 1828, succedendo a un altro Mazzarotta, Domenico, che era stato sindaco nel biennio 1826-1826. E sappiamo, inoltre, che negli anni in cui il problema di una lingua italiana unitaria era assai sentito, a cominciare dal Manzoni, il nostro D. Filippo, che morirà settantenne il 24 gennaio 1859, attendeva alla compilazione di un Vocabolario italiano. Niente male per un proprietario benestante dai molteplici interessi culturali. E non solo. Visto che della illustra famiglia ancora restano a Campobasso il palazzo Mazzarotta, prospiciente alla casa del Di Zinno in via Sant’Antonio Abate e l’altro palazzo Mazzarotta, sede del Museo Sannitico in via Chiarizia, il cui portone è sormontato dalla scudo degli antichi proprietari.
Dal seno di un’altra famiglia benestante campobassana nacque attorno al 1778 Ambrosio (o Ambrogio) Pagani, il quale fu avviato agli studi di legge a Napoli, dove nel 1799 nella foga del giovanile entusiasmo fu sorpreso a inneggiare alla Repubblica e pertanto richiamato in patria ed aspramente redarguito dai familiari che ne tarparono le ali del genio poetico, che comunque continuò a produrre poesia di occasione, grazie a una vena spontanea e non volgare. Conseguita la laurea di avvocato, esercitò con mediocre successo, specie dopo l’adozione del Codice Napoleonico. La cronaca della prima metà dell’Ottocento ne registra a volte la presenza di comprimario, finché nel 1849 subentra a Nicola De Luca, caduto in disgrazia con i Borboni, come Segretario perpetuo della Società economica; ma anche in questo caso non brillerà per capacità e impegno in un ambito, quello economico, che non era certo il suo. Sopravvissuto a tutti i suoi familiari e alla sua epoca, morirà nel 1872, all’eccezionale età di 94 anni, così come aveva sempre vissuto: onesto, gentile e dignitosamente povero.
Bene, l’Inno all’Addolorata dell’onesto e gentile Ambrosio Pagani, qui riprodotto a parte, è composto da nove sestine di ottonari, i cui primi quattro versi sono a rima alternata, il quinto non è rimato come pure il sesto, che è sempre tronco e con terminazione in /o/ accentata, chissà se voluta o casuale. La prima sestina, aperta dal verso “O di Gerico beata” che in una composizione senza titolo finirà per assurgere a tale, sarà ripetuta al termine di ogni strofa successiva, a mo’ di ritornello. Le prime tre strofe tessono le lodi della Vergine, designata rispettivamente come “beata di Gerico” nella prima, “Colomba del Carmelo” nella seconda, e “più che il sole di Sionne” nella terza strofa. Nelle successive tre sestine, il poeta evoca il dolore di madre della Vergine Addolorata ai piedi della croce. Nelle settima strofa il poeta chiede alla Vergine di insegnargli la via del Calvario. Mentre le ultime due sestine sono in connessione diretta con l’inaugurazione della cappella edificata nel camposanto di Campobasso dall’Arciconfraternita della SS. Pietà, com’è specificato in nota, la quale confraternita – aggiungiamo noi – era annessa alla Chiesa di Santa Maria della Croce fin dal medioevo e doveva mantenersi potentissima se aveva potuto finanziare la costruzione cimiteriale e una inaugurazione “solennissima” a cominciare dall’inno composto per l’occasione. I versi delle due ultime strofe, infatti, alludono per l’appunto all’altare e alla cappella eretti in voto e posti insieme al camposanto sotto la protezione della Madonna Addolorata, perché i defunti vi possano trovare pace e grazie i vivi.
Com’è facile rilevare, l’assai decorosa composizione del Pagani è riprodotta in parte nell’Inno all’Addolorata del De Nigris, che espunge molto opportunamente le ultime due strofe, espunge chissà perché anche la terza strofa e accoglie le restanti. In quest’ordine: della prima strofa del Pagani, De Nigris fa la prima parte della sua composizione, della seconda strofa la seconda parte, compatta poi la quarta e la quinta strofa nella terza parte, e infine compatta la sesta e la settima strofa nella quarta e ultima parte del suo Inno. Stando così le cose, resta indubitabile la paternità del testo da assegnare ad Ambrosio Pagani, dal quale De Nigris ha estrapolato sei strofe delle nove originarie,
Il confronto tra il testo musicato dal De Nigris, che ho sottomano nella versione su carta intestata della Chiesa Santa Maria della Croce, e l’originario del Pagani evidenzia alcuni passaggi che andrebbero assolutamente emendati, per esempio: prima parte, il terzo verso “di quel Dio Madre sposa” va corretto in “di Dio figlia, madre e sposa” che completa egregiamente la triade di attributi della Vergine; terza parte, il primo verso “Là sul monte del tormento” va corretto in “Ora immersa in duolo atroce”, che recupera anche la rima mancante; terza parte, i versi otto, nove e dieci “il tuo figlio ne moriva/ e nell’ultimo momento/ di dolore sospirò” vanno corretti in “del tuo figlio nel martiro,/ e nell’ultimo lamento./ e nell’ultimo sospiro,” e anche in questo caso si recupera la rima e si cancella un verso tronco che non ha ragione di essere…
Resta da aggiungere qualche considerazione sulla sorte della musica composta da Mazzarotta. La solennità dell’occasione, l’inaugurazione della cappella cimiteriale di pertinenza della Arciconfraternita della SS. Pietà, annessa alla Chiesa di Santa Maria della Croce, e la notorietà e il prestigio degli autori legittimano l’ipotesi che l’inno venisse in seguito riproposto in occasioni liturgiche o paraliturgiche. In tal caso è probabile che le ultime due strofe fossero espunte già dal Pagani e dal Mazzarotta. Senza dubbio De Nigris, che nasce nel 1827 e che nel 1845 ha diciotto anni, conosce la composizione alla quale arriderà una sorte che non conosciamo, magari anche di oblio una volta morti i due autori. E a distanza di circa quattro decenni decide di porvi mano con un intervento che possiamo ipotizzare oscillante da un minimo a un massimo di intensità. Partendo dal minimo e andando verso il massimo: 1. Michele De Nigris rispolvera la composizione dimenticata dei suoi dimenticati concittadini e la ripresenta pari pari; oppure 2. l’arrangia ex novo per organico e/o voci diversi; oppure 3. mantiene la musica di Mazzarotta, integrandola con un contributo originale, o infine, e siamo al massimo di un suo eventuale contributo, 4. dà una veste musicale completamente nuova alle dignitose sestine di Pagani, e indirizza all’Addolorata il nuovo inno da lui composto. Teniamo presente infatti che, stando a Vincenzo Lombardi, un’autorità in materia, la paternità di Michele De Nigris viene riconosciuta dalle fonti documentarie e dalla stampa dell’epoca solo a far data dal 1912, cioè dall’anno di morte del musicista. Teniamo presente, inoltre, che lo stesso Lombardi, evidentemente all’oscuro della rivista del 1845 e quindi della preesistenza della composizione di Pagani e Mazzarotta, aveva ravvisato nell’Inno del De Nigris uno scarto tra le prime due parti, a struttura e andamento popolareggianti, e le ultime due parti, concepite e scritte in ossequio a una sapienza musicale e stilistica di ordine superiore. Come se il musicista approntasse del materiale preesistente, corredandolo di un contributo personale e più artisticamente riuscito. Che è esattamente la terza delle ipotesi avanzate: ripresentare l’opera dei due concittadini (le prime due parti), arricchite con il suo originale apporto creativo (terza e quarta parta).
Sia come sia, al momento sappiamo con certezza che dell’Inno all’Addolorata, ossia nello zuchetezzù come viene eseguito ai giorni nostri, i versi sono di Ambrosio Pagani. Per quanto attiene alla musica, ignoriamo se vi resista e in quale misura resista il contributo di Filippo Mazzarotta, e quanto invece sia opera gregaria o originale di Michele De Nigris. È un mistero. E non è il solo nella nostra città che, lo sappiamo tutti, è la città dei Misteri.
Giovanni Mascia