La dignità che deriva dal lavoro, il grido dei precari, il dramma di non riuscire più a portare il pane a casa. Temi ‘roventi’ quelli che il vescovo Bregantini tratta per la giornata del Primo Maggio, festa del lavoratore che quest’anno la città festeggia attraverso una serie di eventi e manifestazioni organizzate dalla Diocesi di Campobasso-Bojano, con la Parrocchia di San Giuseppe Artigiano, Confimpresa e il Comune. Un cartellone che vede alternarsi agli eventi religiosi quelli di carattere sociale. Domani la prima messa in programma nella chiesa di San Giuseppe si tiene alle 8, alle 17 Alle ore 17 Processione per le vie del quartiere. Alle 19 discorso sul Lavoro e alle 19,30 Santa Messa presieduta dal Parroco e concerto finale. In occasione della festa sono stati allestiti spazi espositivi di prodotti tipici e laboratori creativi realizzati da alcuni Istituti Comprensivi della città (Montini, Colozza, Jovine e Petrone): 400 i ragazzi e ragazze coinvolte.
Ecco il messaggio del vescovo Bregantini ha inviato ai fedeli per il Primo Maggio.
La giornata del Primo Maggio, quest’anno, è legata al cammino della prossima Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia (4-25 ottobre 2015) e ha come cornice di speranza e di riflessione l’evento del 5° Convegno Ecclesiale Nazionale (Firenze, 9-13 novembre 2015): “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”.
Senza lavoro, infatti, non c’è famiglia e non c’è dignità umana. Ma sono ancora molti nel nostro Paese i fratelli e le sorelle, specie giovani, che mancano della dignità del lavoro. In tante famiglie, le reti sono e restano vuote. Un dramma che ci fa comprendere come vere le parole del Papa: “L’evolversi dell’idolatria del denaro ci sta facendo affogare nella rovina e nella perdizione” (Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Marthae, 20 settembre 2013).
Il grido del precari è realmente la periferia che, più di tutte, domanda luce, che ci chiede premura, la stessa premura di San Giuseppe nella bottega di Nazareth (cfr. Evangelii gaudium 288). Perché nei tanti disoccupati c’è realmente il Cristo che soffre, che ‘consoffre’, lui, il Figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo (cfr. Mt 8,20). Lui, però, è il Signore vicino a chi ha il cuore ferito (cfr. Sal 34,19): lui, il falegname, il carpentiere di Nazareth, di certo comprende le nostre fragilità e precarietà, spirituali e lavorative (cfr. Mc 6,3).
Per questo, anche le nostre comunità cristiane sostano in una Veglia di riflessione e di preghiera, con cuore attento e vigilante. Esperta di umanità, la Chiesa sente il bisogno di spezzare il pane, perché con cinque pani si possa nutrire il pianeta. Nella condivisione, per farsi voce delle attese dei disoccupati e di chi sta perdendo il lavoro, con tanto ascolto, con cuore di misericordia e di cura: presenze umanizzanti che, come il Cireneo, si fanno carico delle croci sul cammino della vita.
Questa Veglia, allora, si tinge dei colori della riflessione culturale, sorretti dalla Dottrina sociale della Chiesa. Si sente infatti impellente il dovere di fondare la nostra economia su un preciso orientamento etico e antropologico che ponga sulla persona, non sul mercato da solo, la forza stessa dell’economia. Si apre una sfida per superare quella finanza che, finora, si è presentata come negazione del primato dell’uomo. La mancanza di lavoro uccide, poiché è “un’economia dell’esclusione e della inequità” (Evangelii gaudium 53).
Il problema non è quello della sussistenza, ma quello di “non poter portare il pane a casa” come ha detto Papa Francesco, in Molise e a Scampia. Dove non c’è lavoro, non c’è dignità. La persona si riduce a merce e mancando la dignità, l’umanesimo si svuota!
Come Chiesa e società italiana, ci interroghiamo allora con trepidazione sul futuro dei nostri giovani. Sulla loro dignità. Sentiamo infatti che questa precarietà è attesa di nuove strade, per la costruzione del bene comune.
Con questi passi di speranza, va riscoperta, nel decennio dell’educare alla vita buona del Vangelo, l’arte dell’accompagnare. Significa soprattutto far abitare con fiducia il nostro tempo, con una vita sociale piena e partecipativa. Rendere protagonisti i nostri giovani, anche negli anni della precarietà, sorretti dalla luce delle Beatitudini, che riconoscono nella pratica della giustizia la forza delle radici dell’albero della vita, le cui foglie “servono a guarire le nazioni” (Ap 22,2).
Accompagnare vuoi dire star vicino, condividere lacrime e speranze, in un’empatia che si fa misericordia vissuta e solidale, che sta alla base di ogni esperienza cooperativistica. Solo così si radicano con fedeltà esperienze degne di coraggio come il Progetto Policoro o il Prestito della Speranza, iniziative ormai consolidate dopo la loro profetica intuizione. E partendo dalle terre del Sud, ferito da sempre, ora sono di sostegno anche alle Chiese del Nord, che si ritrovano ad accogliere la sfida della precarietà con sguardo non di paura ma di orizzonti nuovi e fecondi!
Decisivo resta il rispetto della Domenica! “Ricordati del giorno del sabato per santificarlo” (Es 20,8). In quel limite al fare, la nostra visione antropologica riscopre la forza del rispetto del fragile e del debole. Se, infatti, non si rispetta la domenica, non si avrà rispetto nemmeno per chi è disoccupato. E il lavoro diventerà schiavizzante e oppressivo, come già si vede in certe importazioni di tipo industriale, in aziende storiche che non perseguono più la strada della solidarietà, ma solo quella del profitto assoluto!
Questa visione di solidale attenzione al fragile e al precario si impara già in famiglia, che si fa scuola sociale nel suo stesso esserci.
Una famiglia vicina, che accompagna, è spazio che lancia in alto i cuori. Per ideali alti e veri. Un aquilone nel cielo azzurro, ma con un filo ben saldo nelle mani.
Una famiglia unita, poi, pone nel cuore dei suoi figli il gusto della solidarietà nativa, come forma che permette di affrontare con fiducia ogni rischio. Mai da soli. Mai senza l’altro! In una casa solidale, si impara a rischiare di più; ad investire con maggior coraggio; a guardare al domani con fiducia.
Una famiglia riconciliata nella misericordia sa fare delle relazioni il tessuto vitale per un arazzo sociale che sa comporre, con pazienza, i diversi fili degli interessi specifici, spesso contrapposti. Una tunica, tutta di un pezzo (cfr. Gv 19,23), intessuta dalle mani di Maria di Nazareth.
Vanno perciò coniugati i tempi del lavoro con i tempi della famiglia, perché è da questa sorgente, vicina, unita e riconciliata, che può sgorgare un flusso vitale, capace di aiutarci a gestire questa crisi, etica, sociale ed economica.
Solo insieme ne usciremo. Lottando contro la paura e l’indifferenza. Tramite san Giuseppe, fissiamo lo sguardo su Gesù, lui “che ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo e ha lavorato con mani d’uomo!” (Gaudium et spes 22).