«Perché quella martellata non l’ha data a me….». Si dispera Anna. È stata in Tribunale, ha visto Elvio con le manette. Non era in sé, lo sguardo perso nel nulla, in preda ai suoi mostri come quelli che venerdì mattina lo hanno accompagnato in bus da un paesino della provincia fino a Campobasso. Quei mostri che lo hanno armato contro un suo conoscente, preso a martellate al terminal del capoluogo; quelle voci che gli hanno dato la forza di aggredire una donna, ferma in auto al semaforo, per prenderle la macchina e scappare fino al provvidenziale intervento della Polizia. «Avrebbe potuto uccidere qualcuno, investire qualche pedone, fare e farsi del male. Elvio non ha più la patente, gli è stata ritirata e non ha più sostenuto l’esame di guida» il grido di dolore di mamma Anna. «Chiedo scusa a quella signora: Elvio non è in sé, soffre di disturbi della personalità ma nessuno lo ha preso in carico, non è seguito. Sono quindici anni che lo denuncio. Nulla, non succede nulla». Anna, con coraggio, ha alzato la cornetta e ha chiamato anche l’uomo preso a martellate dal figlio. Si conoscono, Elvio ha lavorato fino ad un anno fa per quel geometra contro il quale ha scagliato tutta la sua rabbia. E potrebbe essere legato a questo rapporto professionale interrotto – forse non nel migliore dei modi – quella rabbia che, giorno dopo giorno, ha cominciato ad affollare la mente di Elvio, a dare corpo e anima ai mostri e alle ombre che accompagnano la sua esistenza. «Mi ha detto di non chiamare più, di non telefonare altrimenti avrebbe denunciato anche me» racconta Anna, con il cuore in mano, piegata dal dolore.
«Ha dato di matto anche questa mattina (ieri per chi legge, ndr)». Udienza di convalida degli arresti. Elvio è detenuto a Vasto, nel carcere del capoluogo di regione non c’è posto. Arriva a Palazzo di Giustizia con quello sguardo perso, allucinato, impegnato a seguire i suoi mostri. Sbotta, aggredisce verbalmente il giudice e l’avvocato. «Non sta bene, mio figlio non sta bene. Ha bisogno di aiuto ma nessuno ci ascolta. Non esistiamo né per i nostri familiari, né per i servizi sociali, né per il centro di salute mentale, né per il Tribunale» continua Anna in un racconto lucido e sconsolato.
La voce rotta dal pianto, la forza di una madre che non si arrende nonostante una vita fatta solo di ferite, soprusi, botte, maltrattamenti, paura. Una storia dura, di ritardi e negligenze, che colpisce dritta al cuore di chi ascolta. «Sono 15 anni che denuncio mio figlio, ci sono fascicoli sia alla Procura di Larino sia a quella di Campobasso. Tutti sapevano, nessuno ha fatto nulla» l’accusa, lucida. Ed è questa lunga catena di silenzi, inefficienze, sguardi rivolti altrove che oggi armano Anna, stanca di essere sola, di combattere ancora.
Elvio ha 33 anni, una laurea in giurisprudenza conseguita da ospite della comunità di padre Lino dove ha scontato gli arresti domiciliari in seguito ad una condanna per maltrattamenti nei confronti della mamma. Soffre di disturbi della personalità, acuiti dall’uso di sostanze stupefacenti e dal vizio del bere. Anna ha 64 anni, una voce giovanile e piena di dignità: ex maestra in pensione, racconta la sua disperazione come una nenia, scandisce il ritmo di una storia costruita sul dolore, sulla solitudine, sull’abbandono. Da una piccola fessura del racconto – veloce, fluido, corretto – si insinua la rassegnazione, la voglia di smetterla di combattere. Il desiderio di dire basta e arrendersi. «Meglio se la dava a me quella martellata…» si sfoga, ripercorrendo il dolore che ha riempito la storia dei suoi ultimi 30 anni di vita.
Anna resta sola dopo appena quattro anni di matrimonio. Il marito ha 40 anni quando non supera il calvario di un trapianto al quale è sottoposto in un ospedale del Nord. Elvio, il loro unico figlio, ha appena 3 anni quando resta orfano. Lei diventa una giovane vedova. Di anni ne ha solo 34.
Il loro mondo si fa di colpo buio, silenzioso, pieno di dolore e di lacrime. «È un ragazzo perso, sofferente. Siamo stati abbandonati, prima di tutto dalle famiglie. Non so come siamo ancora vivi» si lascia andare Anna e racconta la storia della sua vita ad ostacoli. Ha denunciato più volte Elvio perché, nei suoi momenti di rabbia e di astinenza, si accaniva contro di lei, la maltrattava, la picchiava. «Ho contattato anche il centro antiviolenza, in Questura mi hanno fatto le foto. Avevo i lividi su tutto il corpo». Quella stramaledetta droga, «che gli portavano persino alla casa dello studente di Campobasso, dove alloggiava quando frequentava l’università» ricorda Anna. Da lì il baratro, e poi la follia. Nonostante le denunce, il periodo trascorso in comunità agli arresti domiciliari, Elvio torna a casa e sceglie di andare a vivere nell’abitazione della nonna. «Io ho paura ma non posso stargli lontano – dice Anna quasi a volersi scusare di non condividere con lui lo spazio fisico di una casa -; ogni giorno vado da lui. Pulisco, metto in ordine, controllo. E da qualche giorno avevo capito che la situazione stava precipitando». Tre mesi fa era stata lei stessa a chiedere il trattamento sanitario obbligatorio per il figlio: il ricovero a Termoli, aggressioni ai danni dei medici e del personale. Un tentativo di fuga. «Quando lo hanno dimesso mi hanno detto: non si preoccupi, adesso sarà costretto a curarsi. Ogni mese dovrà essere sottoposto ad una terapia». Passati i primi 30 giorni, nessuno si è fatto vivo. Anna non ha paura di chiedere, telefona al Centro di salute mentale. «Mi hanno risposto che non potevano obbligarlo a curarsi». Da allora l’escalation. Chiuso in quella casa buia, stretto nel silenzio che dava forma e voce ai mostri. «Parlava da solo, rideva senza motivo. Un giorno si è affacciato pericolosamente dal davanzale della finestra. Voleva morire. Ho chiamato il Centro di salute mentale, ho chiesto aiuto. Mi è stato detto che a fine mese avrebbero preso in carico mio figlio. Io ho detto: non ci arriviamo alla fine del mese». La profezia di Anna si rivela fondata, purtroppo. Elvio ha in casa un martello, la mamma lo trova e lo nasconde per bene. Ha paura possa servire da arma per fare del male a qualcuno. E l’altra mattina, quando Anna apre la porta «di quella casa lugubre, dove l’assistente sociale è entrato una volta sola per poi non farci più ritorno per paura dei topi», quel martello non c’è più. Il cuore di Anna batte forte, chiama la Questura e li avverte di quel figlio fuori di senno, che potrebbe fare del male a qualcuno. «Insieme non possiamo stare ma non posso abbandonarlo» si scusa ancora. Ieri mattina gli occhi stanchi di Anna hanno incrociato lo sguardo perso di Elvio, in un’aula di Tribunale. «Come si deve sentire una madre nel vedere il proprio figlio in manette, che non connette, che è fuori di testa… Sono sola, sai – dice, lasciandosi andare ad una confidenza – ho due fratelli e non mi hanno nemmeno chiesto come sto…. Eppure lo sanno cosa ha fatto Elvio a Campobasso. Siamo abbandonati al nostro destino. La solitudine mi sta uccidendo e mio figlio paga l’ingiustizia della vita».
lucia sammartino