«Vincenzo Vinciguerra fu sentito. Furono fatte tutte le indagini che dovevano essere fatte su quella indicazione e se sarà necessario fare altro, lo faremo». Lo ha assicurato Giovanni Salvi, procuratore generale di Roma in merito alla riapertura delle indagini sulla morte del giornalista di Sessano del Molise Mino Pecorelli. Nei giorni scorsi il sito estremeconseguenze.it lo ha intervistato per fare il punto sul caso, su cui nei mesi scorsi si sono riaccesi i riflettori, dopo che la sorella del cronista molisano Rosita ha chiesto e ottenuto la riapertura delle indagini sulla base di una vecchia dichiarazione di Vinciguerra (ex estremista di destra) raccolta dal giudice Guido Salvini nel 1992, nella quale sostiene di sapere chi avrebbe avuto in custodia la pistola usata per uccidere Pecorelli. Verbale poi trasmesso alla procura di Roma i cui accertamenti non hanno portato a sviluppi investigativi.
Durante l’interrogatorio parlò della pistola che uccise Pecorelli affermando che era nelle mani di Domenico Magnetta, avanguardista vicino a Massimo Carminati, l’ex Nar processato e assolto per l’omicidio del giornalista. In procura si sta indagando e Salvi ha precisato che «Si farà tutto quello che è necessario».
Intanto da Perugia sono arrivati i reperti del caso Pecorelli, che saranno confrontati con la 7.65 con silenziatore sequestrata a Domenico Magnetta, una pistola dello stesso calibro dell’arma usata per uccidere il giornalista. Dopo quarant’anni potrebbe essere l’unica e l’ultima possibilità per fare chiarezza sull’omicidio di Pecorelli.
L’assassinio del direttore di Op, Osservatorio politico, è uno dei casi irrisolti più controversi della storia giudiziaria italiana. La sera del 20 marzo 1979 Mino Pecorelli fu assassinato da un sicario che gli esplose quattro colpi di pistola in via Orazio a Roma, nelle vicinanze della redazione del giornale. I proiettili, calibro 7,65, trovati nel suo corpo sono molto particolari, della marca Gevelot, assai rari sul mercato (anche su quello clandestino), ma dello stesso tipo di quelli che sarebbero poi stati trovati nell’arsenale della banda della Magliana rinvenuto nei sotterranei del Ministero della Sanità.
L’indagine venne archiviata una prima volta a Roma nel 1991. Poi riaperta sempre nella capitale nel 1993 e trasferita a Perugia dopo il coinvolgimento dell’allora magistrato romano Claudio Vitalone. Il processo si è poi concluso con l’assoluzione piena di tutti gli imputati da parte della Cassazione. Un procedimento che aveva coinvolto Vitalone, Giulio Andreotti, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò, Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati.
Le indagini per far luce sull’assassinio sono state riaperte lo scorso mese di marzo, dopo la richiesta presentata dall’avvocato Valter Biscotti, per conto della sorella del giornalista. «Cerco la verità e non mi arrenderò finché non l’avrò scoperta – ha più volte evidenziato Rosita Pecorelli -. Voglio solo sapere chi ha ucciso mio fratello».