Dieci milioni circa di residenti, un sesto dell’Italia. 142mila casi su una popolazione completamente ‘mappata’ attraverso i test molecolari. 514 morti da inizio pandemia, meno dello 0,4% della popolazione contagiata. Un lockdown rigido, regole ferree anche per il periodo della seconda ondata; ospedali Covid nati nel giro di qualche settimana e residenze per pazienti positivi. Non è l’Italia, è evidente. Siamo ad Abu Dhabi, un milione e mezzo di abitanti, capitale degli Emirati Arabi Uniti. Oggi ci sono 31 gradi, poco vento e tanta umidità. Dal luglio del 2019, è la metropoli dove vive una giovane coppia di isernini. Nunzia Tricarico e Massimiliano Carlomagno rientrano – loro malgrado – a pieno titolo negli expat, distanti per ragioni professionali e scelte di vita migliaia di chilometri, per la precisione 5mila 596 e qualche metro, dai propri affetti e ora ‘bloccati’ anche dal Covid. Non si può tornare in Italia e né, tantomeno, si può andare a trovarli dove vivono. E quest’anno non potranno nemmeno rientrare per Natale. «La prima fase è iniziata a marzo – racconta Nunzia, donna di carattere che non si è lasciata intimidire dai cambiamenti radicali che la scelta di trasferirsi negli Emirati Arabi avrebbe avuto -; immediatamente hanno chiuso scuole, ristoranti, cinema, teatri, musei, moschee e chiese. Tutto. I centri commerciali, che qui sono un po’ il cuore pulsante della città, chiusi anche loro. Accesso consentito solo a supermercati e farmacie dove poteva entrare una sola persona per famiglia, vietati ai minori di 12 anni e agli over 60. C’era il coprifuoco: a mezz’ora dall’inizio, tutti i cellulari emettevano un suono acuto, come quello di una sirena ed una voce annunciava che sarebbe iniziato a breve. Durante quelle ore in cui non c’era nessuno in strada e nei negozi avveniva la sanificazione». L’uso della mascherina è stato reso obbligatorio immediatamente, Abu Dhabi ha chiuso subito i confini. «Non solo da e verso l’estero, ma anche quelli interni con Dubai. Lo ha fatto allora e lo fa anche adesso – continua -, oggi chi esce per recarsi in un altro emirato deve fare tre tamponi a distanza di alcuni giorni. Ovviamente a pagamento ed a carico del singolo». Termoscanner e disinfettante all’ingresso di ogni palazzo, ufficio o negozio. Smart working «tranne che per i lavori di edilizi, che sono andati avanti come se nulla fosse ma con rigide misure di sicurezza». Poi qualche accenno di libertà ma nella cornice di regole ferree. Nella seconda ondata «scuole aperte per i bimbi delle elementari e per gli ultimi anni delle secondarie – continua Nunzia -;i bimbi degli anni intermedi, come i miei che studiano a casa da marzo, continuano l’home learning. La didattica a distanza è stata gestita sapientemente, i collegamenti seguono l’orario scolastico e, in particolare, durante i mesi di lockdown, le scuole hanno inventato di tutto per tenere i bambini occupati e non necessariamente di fronte ad uno schermo. In un modo o nell’altro, però, i bimbi anche qui non hanno la libertà di “essere bambini”, di socializzare, di correre, di giocare. Ancora oggi – racconta – mascherina sempre obbligatoria. Oggi bambini e anziani possono accedere ai luoghi pubblici, si può andare a cena fuori, ma solo 4 persone nello stesso tavolo. I ristoranti, così come tutti i luoghi di intrattenimento, possono operare solo con capacità limitata al 50%. Gli adulti sono tornati in ufficio a metà luglio; vengono sottoposti a tampone ogni 2 settimane, non sono concesse riunioni, qualunque viaggio di lavoro all’estero è vietato, non è concesso far accedere esterni. Ad esempio non è possibile ordinare il pranzo e questo è il paese della delivery, ormai non ammessa. Basti pensare che qualsiasi cosa tu voglia, ti viene consegnata ovunque!». Sport, piscine e spiagge accessibili ma sempre con numeri limitati di accessi e distanziamento. «L’elenco dei provvedimenti è molto lungo come quello delle sanzioni che qui sono frequenti e severe, mi sento di dire – continua – che il Paese si è mosso correttamente e che la popolazione ha reagito ancor più correttamente». Nunzia, Massimiliano e i due figli non tornano in Italia dal luglio del 2019. «Quando siamo arrivati qui, tutti i sistemi di videochiamata erano bloccati, per mesi non abbiamo visto il volto dei nostri cari ma abbiamo sentito solo le loro voci. Poi è arrivata la pandemia e ci è stato consentito di utilizzare Zoom. Per carità – ammette Nunzia – è un palliativo, non è come smettere di lavorare e passare a fare un saluto ai propri genitori ma, oramai, chi può farlo? Chi più, chi meno siamo tutti distanti dal luogo di origine e dagli affetti. In questi mesi, alcuni amici hanno perso i genitori e non hanno avuto modo neppure di tornare in Italia per un ultimo saluto. Questo credo sia il timore di tutti noi. Non poter essere al loro fianco – ragiona ad alta voce, interpretando un sentimento diffuso certo ma che la distanza acuisce inesorabilmente -; l’essere inutili, l’essere impossibilitati a fare qualsiasi cosa. È un po’ come se mancasse l’aria, come se avessi un attacco di panico». Nunzia, Massimiliano, i loro due figli non vedono genitori, nonni, zii, cugini, parenti e amici da sedici mesi.
«Ogni volta che il pensiero che qualcuno di loro si ammali s’insinua, mi manca il respiro. Sta sfumando anche la possibilità di tornare a Isernia a Natale.
Ecco, il Natale – riflette Nunzia -, pronuncio questa parola e si offusca la vista, non riesco a trattenere le lacrime. Spero che la situazione migliori e che potremo abbracciare presto i nostri cari. Ho solo voglia di stringere tutti, ma proprio tutti. Se fosse possibile vorrei abbracciare anche le case, gli alberi, il Molise, la meravigliosa e traballante Italia. Ricordo quando ho salutato tutti prima del nostro trasferimento. Ho pianto, li ho stretti forte e ripetutamente. Sapevo che non ci saremo rivisti presto, ma mai avrei immaginato quello che stiamo vivendo».
ppm