Settantasette anni fa. La sentenza storica sull’eccidio di Fornelli torna a quel 4 ottobre del 1943. Quarantacinque pagine con le quali si mette un punto fermo: il Tribunale di Isernia condanna la Repubblica Federale della Germania ad un maxi risarcimento di circa 12 milioni di euro in favore del Comune di Fornelli e degli eredi dei sei civili barbaramente uccisi quella mattina. Un solo sopravvissuto al tempo che passa. Ha visto e vissuto tutto; ha sentito sulla propria pelle i brividi della paura, ha assistito all’orrore, ha temuto per la propria vita, ha visto il padre morire. È Giose Lancellotta l’ultimo testimone dell’eccidio di Fornelli, la feroce uccisione messa in atto dalle truppe naziste in quel piccolo borgo, entrata nella Storia grazie anche alla sentenza del giudice monocratico Fabio Papa. Che – in quelle 45 pagine intrise di diritto internazionale, di passato e presente e di risoluzioni fra Stati – racconta, con il linguaggio giuridico che si materializza in immagini cruente, la storia di quegli uomini, delle loro mogli e dei figli adolescenti. Famiglie che oggi, assieme al Comune, hanno voluto fermamente essere parte di questo giudizio. La ricostruzione di quei giorni è documentata, spiega il giudice Fabio Papa nella sentenza; gli eventi ricostruiti sulla base di documenti, atti ufficiali anche processuali e di polizia giudiziaria.
L’ANTEFATTO. «L’impiccagione dei sei fornellesi – scrive Papa – succedeva al ferimento di due soldati tedeschi e all’uccisione di un altro commilitone ad opera di un giovane fornellese, certo Domenico Petrarca, il quale il giorno precedente aveva scagliato una bomba contro i soldati che, ormai da molte settimane, stavano razziando nella zona il bestiame, compreso il suo; la reazione tedesca fu immediata e alcuni reparti armati si portarono nella frazione Castello, sparando tutt’intorno colpi di mitragliatrice e rastrellando indiscriminatamente tutti coloro che si trovavano nei paraggi».
IL FATTO. Siamo agli inizi di ottobre del 1943; quel pomeriggio vennero imprigionati in una casa di frazione Castello «cinque anziani maschi, Domenico Lancellotta, Celestino Lancellotta, Vincenzo Castaldi, Giuseppe Castaldi e Michele Petrarca». A Fornelli invece stessa sorte subirono il podestà Giuseppe Laurelli, il vice podestà Alfredo Di Fiore e altre dieci persone (Giuseppe Di Fiore, Giuseppe Lancellotta, Pietro Ruzzo, Cosmo Ucci, Vincenzo Coletta, Alberto Coletta, Angelo Castaldi, Aldo Castaldi, Giuseppe Castaldi, Vincenzo Favellato e Amerigo Verte) che furono condotti ad Alfedena». Il giorno dopo «Giuseppe Laurelli e Alfredo Di Fiore furono portati alla “Cartiera” in località Castellone, interrogati e sommariamente processati». Quella sentenza stabilì che i cinque uomini catturati nella frazione Castello, il podestà e il vice podestà dovevano essere uccisi e che tutte le case della frazione dovevano essere distrutte «e così pure la casa del podestà, mentre tutti gli altri prigionieri dovevano essere liberati». Durante il ritorno a Fornelli, il camion che trasportava Laurelli e Di Fiore si fermò nel centro del borgo: i condannati furono fatti scendere e mentre le guardie erano distratte da alcuni disordini nella piazza, il vice podestà riuscì a fuggire nonostante il fuoco esploso contro di lui dai fucili dei nazisti. «Tutti gli arrestati nella frazione Castello erano inermi e pacifici contadini che vivevano nei dintorni – scrive ancora il giudice Papa nell’unica vera sentenza – e si trovavano in casa o nei campi intenti a lavorare e, come il podestà e il vice podestà, erano assolutamente estranei all’uccisione e al ferimento dei soldati tedeschi; i condannati a morte furono tutti radunati nella frazione Castello in vicinanza della casa D’Agostino dove i tedeschi avevano costruito la forca, poggiando un’estremità di una trave su un palo verticale e l’altra estremità sulla casa.
L’ESECUZIONE. I soldati, come monito e mortificazione per gli stessi condannati, bruciarono tutte le case della frazione Castello e, nel capoluogo, le case dei Laurelli, dei De Iorio, dei Lombardi e di altri fornellesi. È il 4 ottobre, sono quasi le 11 del mattino. «I soldati allontanarono con la minaccia delle armi cinque donne e i ragazzi che, disperandosi e piangendo per i loro cari, si aggiravano intorno; fecero salire i condannati sopra delle casse che erano state poste sotto ai cappi e poi, con un calcio, tolsero le casse e impiccarono gli sventurati. La morte, trattandosi di impiccagione a nodo fisso, non fu istantanea ma avvenne lentamente e atrocemente per soffocamento ed è stato testimoniato che durante l’esecuzione i soldati se ne stavano tranquillamente a mangiare e ascoltare le note musicali da un grammofono che avevano rivolto a sud verso la valle sottostante dove erano accampati i loro commilitoni». Se può esistere un ‘di più’, i soldati lo misero in atto: «come finale atto di oltraggio e brutale disprezzo, ma anche per ulteriore monito, i soldati vietarono per ben quindici giorni di dare sepoltura ai martiri, lasciando appositamente delle sentinelle che minacciavano chiunque si avvicinasse». Solo il 19 ottobre, i corpi ormai in decomposizione e dilaniati dagli animali, vennero restituiti, per l’intervento di un tenente colonnello tedesco, alle famiglie per consentire la sepoltura.
LA PAURA DELLE RAPPRESAGLIE. Quei giorni di terrore vero, di morti e devastazioni, però avevano lasciato ferite profonde e mai più rimarginate. Gran parte della popolazione fino al mese successivo, a liberazione avvenuta, restò a vivere nei boschi, per paura di altre rappresaglie. «Come documentato – scrive ancora Fabio Papa -, va ricordato che azioni di rastrellamento di tal genere e caratterizzate da tanta violenza ed efferatezza nei confronti della popolazione civile rientravano nello schema operativo della Wehrmacht sulla base della direttiva Kampfanweiseisung fur die Bandenbekampfung in Osten (direttiva di combattimento per la lotta alle bande dell’Est) emanata nel novembre 1942 e dell’ordine Bandenbekampfung (lotta alle bande) del Fuhrer emesso nel dicembre dello stesso anno che vennero applicate dal Feldmaresciallo Kesserling, nominato nel settembre 1943 da Hitler comandante superiore Sud e responsabile delle operazioni militari in Italia, nelle ordinanze da lui emanate con l’intensificarsi della lotta antipartigiana».
GLI AUTORI DELL’ECCIDIO. I soldati tedeschi autori dell’uccisione dei sei civili appartenevano alla 26^ Divisione Panzer (comandata dal Generale Milo von Luthwitz), della quale facevano parte anche il 26° Reggimento Panzer con due battaglioni, il 9° Reggimento Granatieri Corazzati (comandato dal Colonnello von Witzleben), il 67°Reggimento Granatieri Corazzati nonché varie unità divisionali contraddistinte coi numeri 93 (artiglieria, genio, trasmissioni e servizi) e 26 (esploratori e reparto corazzato), dislocata lungo la linea Barbara che presidiava il tratto Torella del Sannio-Sessano del Molise-Isernia-Fornelli-Colli al Volturno sotto il comando del LXXVI Corpo d’Armata Panzer a sua volta assoggettato alla 10^ Armata. «Si trattava della stessa Divisione alla quale appartenevano i militari autori della strage di Fucecchio del 23/08/1944 – scrive ancora Papa – nella quale furono uccisi 184 civili e in relazione alla quale il Tribunale Militare di Roma (con sentenza in data 25/05/2011 confermata in appello in data 15/11/2012) ha condannato all’ergastolo il primo ufficiale d’ordinanza Ernst August Arthur Pistor, il maresciallo Fritz Jauss e il sergente Johann Robert Riss».
ppm
Sei fori: il vuoto lasciato nella comunità diventa monumento perenne
Quello di Fornelli fu uno dei primi episodi di resistenza italiana: il Comune è stato insignito della Medaglia di Bronzo al Valor Militare per onorare il sacrificio di sei dei suoi cittadini Oggi, nel luogo in cui si verificò l’impiccagione è ubicata una piccola cappella che ogni anno ospita la commemorazione dell’eccidio con una fiaccolata e una cerimonia religiosa. Il 4 ottobre 2016, a seguito dei lavori di riqualificazione dell’area, è stato inaugurato il nuovo monumento, opera dello scultore Antonio Castaldi. L’opera, in ferro battuto si presenta come una stele simbolo di tutta la comunità di Fornelli. I sei fori rappresentano il vuoto lasciato nella comunità dai Martiri; la base esagonale, funge da sarcofago (virtuale) che contiene le spoglie dei sei Martiri; le sei sfere simboleggiano la perfezione del creato e contengono i semi per nuove vite; le sei luci sono una perenne guida a non dimenticare. La catena, spezzata, simboleggia la fine dell’oppressione, dell’odio, della malvagità umana.