Una memoria difensiva corposa, articolata. Settanta pagine, depositate il 27 aprile. E mercoledì, davanti al Tribunale dei ministri a Brescia, l’ex ministro alla Salute Roberto Speranza non si è sottratto ad alcuna puntualizzazione utile a ricostruire quel quadro che già la stessa memoria aveva tratteggiato puntualmente.
Con lui, in una giornata che di certo ‘è notizia’ in Italia e anche all’estero, gli avvocati di fiducia, Guido Calvi e Danilo Leva. È il giorno degli interrogatori per Roberto Speranza e Giuseppe Conte, convocati appunto dal Tribunale dei ministri competente alla valutazione delle loro posizioni.
La mancata applicazione del piano pandemico che, seppur datato 2006, per la magistratura poteva limitare i danni e salvare vite è il nodo da sciogliere per l’avvocato Danilo Leva che assiste l’ex ministro alla Salute, Roberto Speranza. Ogni nube, ogni ipotesi accusatoria quindi deve essere sgomberata il prima possibile. Perché ombre non ce ne sono, per la difesa dell’onorevole. Perché quello che è successo, e che tre anni fa ha sconvolto il mondo, deve essere cristallizzato alla luce dei fatti di allora per essere spiegato senza alcun fraintendimento.
Quando si va in aula per un interrogatorio, non si parla di sensazioni, giusto avvocato Leva? Ma lei ne ha avute?
«Il nostro mestiere non è quello di valutare le sensazioni. Dobbiamo ricostruire i fatti e capire se ci siano condotte penalmente rilevanti. L’ex ministro Speranza non si è sottratto alle domande, ha puntualizzato ogni ulteriore aspetto e ha evidenziato quello che è il punto dal quale non si può non partire: le azioni poste in essere all’epoca seguivano le indicazioni della comunità scientifica, di quella più accreditata. A partire dall’Istituto superiore di Sanità e fino al Consiglio superiore della Sanità e al direttore scientifico dello Spallanzani. L’ex ministro ha spiegato che oggi, come allora, si affiderebbe solo alla scienza. Ed è quello che ha fatto. L’unico interesse che ha perseguito è sempre stato quello della tutela della salute».
Oggi, trascorsi tre anni da quei momenti, con la fine della pandemia certificata solo qualche giorno fa dall’Oms, sembra quasi tutto facile.
«Credo che sia necessario, anzi indispensabile, contestualizzare gli eventi. Parlare con il senno di poi è, infatti, operazione semplicistica. Ricordiamoci che il 14 gennaio del 2020, l’Oms sosteneva che fosse bassa la possibilità di trasmissione del Coronavirus da uomo a uomo. Il 20 gennaio, sei giorni dopo, che fosse bassa la possibilità di diffusione in Europa. Il 23 gennaio non aveva ancora dichiarato il Coronavirus come una situazione sanitaria di emergenza internazionale. Che veniva dichiarata solamente il 30 gennaio dal direttore dell’Oms determinando così in Italia il passaggio dalla fase interpandemica a quella di allerta. Tanto è vero che il giorno dopo, l’ex ministro propose al Governo che poi lo dichiarò lo stato di emergenza in Italia. Che fu il primo paese in Europa».
La questione, per quanto attiene il suo assistito, è tutta nella mancata applicazione del Piano pandemico datato 2006.
«Intanto, fino al 30 gennaio le azioni previste da quel piano per la fase interpandemica furono tutte adottate dal Ministero perché, è il caso di ricordare, come la competenza per l’adozione dei Piani spetti ai dirigenti e non al ministro, in capo al quale sussistono poteri di indirizzo e di programmazione.
E non è un caso, infatti, che all’onorevole Speranza non sia contestata l’omissione di atti d’ufficio in relazione proprio alla mancata adozione del Piano. E comunque è bene precisarlo che fino al 30 gennaio furono emanate ben undici circolari ministeriali che riguardavano, tanto per citarne alcune, i percorsi differenziati per i malati nelle strutture sanitarie, l’utilizzo delle mascherine per il personale medico nelle strutture ospedaliere, la sorveglianza sanitaria con gli strumenti tipici della fase interpandemica e le più elementari norme igieniche personali.
Successivamente, dal 31 gennaio in poi, con la proclamazione dello stato di emergenza, poteri e risorse sono stati trasferiti alla Protezione Civile. Tra l’altro, il Piano pandemico, ricordiamo pensato per l’influenza, era comunque inadeguato a fronteggiare il Covid così come emerso dagli atti d’indagine in quanto non aggiornato per 13 anni, pensato per il virus influenzale e non per il Sars Cov 2 che presentava caratteristiche differenti e inoltre privo dei piani di dettaglio attuativi. Ricordo che l’ex ministro Speranza ha assunto la titolarità del dicastero solo il 5 settembre del 2019. Quattro mesi prima della pandemia che ha fermato il mondo. A partire dal primo di febbraio, il Cts concordò unanimemente che per offrire una risposta più efficace contro il Covid occorreva un piano ad hoc, sancendo l’inadeguatezza di quello del 2006. Cosa avrebbe dovuto fare l’ex ministro Speranza, sconfessare la comunità scientifica nel pieno di una crisi senza precedenti?».
E poi, dopo tre anni, con la pandemia che è stata quasi debellata grazie alla scienza, arriva l’inchiesta.
«A mio giudizio è espressione della tipica malattia italiana, il panpenalismo: si chiedono risposte che non spettano al sistema penale. Le accuse sono di epidemia colposa e di omicidio colposo plurimo aggravato. Ricordo a me stesso che la Cassazione ha stabilito che l’epidemia colposa non si configuri con condotte omissive a forma libera ma solo vincolata. Nonostante questo orientamento, ormai consolidato, la Procura di Bergamo ha comunque costruito il capo d’accusa in merito.
L’omicidio colposo plurimo aggravato, poi: non c’è un atto d’indagine che, con certezza o probabilità prossima alla certezza, possa legare le eventuali omissioni ascritte all’onorevole Speranza alla contrazione del virus e al decesso di 57 persone.
Oggi sono i numeri a dare contezza di quello che è successo nel mondo. I dati aggiornati che ci ha fornito ad inizio aprile proprio l’Organizzazione mondiale della Sanità: 782 milioni di contagi, 7 milioni di morti nel mondo. Non vorrei essere frainteso, ovviamente, ma ritengo illogico pensare che l’adozione di un Piano di 13 anni fa, mentre il mondo veniva travolto dall’epidemia e dai morti, sarebbe stata da sola sufficiente ad evitare la diffusione della malattia nella città e nella provincia di Bergamo. Un’affermazione, questa, inverosimile».
Ora la Procura bresciana, che ha ricevuto gli atti per competenza funzionale da quella bergamasca, dovrebbe depositare le sue richieste e poi il Tribunale dei Ministri deciderà se chiedere l’archiviazione o l’autorizzazione a procedere alle Camere.
lucia sammartino

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