Un anno e quattro mesi di reclusione e 20mila euro a titolo di risarcimento. Questa la condanna inflitta dal tribunale di Roma all’imprenditore Francesco Maria De Vito Piscicelli, finto sotto processo per calunnia nei confronti di Antonio Di Pietro in relazione alla vicenda dell’appalto per la realizzazione dell’Auditorium ‘Unità d’Italia’ di Isernia.
Una vicenda che parte da lontano e che, in parte, è stata «ricostruita – si legge nella sentenza – attraverso le stesse dichiarazioni delle persone offesa, nonché dalle acquisizioni costituenti corpo del reato, ovvero le affermazioni intrinsecamente calunniose rivolte dal De Vito Piscicelli al Di Pietro, consistenti in asserite pressioni risolutive sulla commissione nominata, che avrebbero consentito ad un gruppo di imprese, capeggiato dall’imprenditore Rocco Lupo, di ottenere l’aggiudicazione della gara di appalto per la realizzazione del nuovo auditorium di Isernia, pretermettendo lo stesso De Vivo Piscicelli, a capo del progetto concorrente da realizzarsi con il consorzio ‘Novus’, arrivato secondo alla gara.
I fatti risalgono alla fine del 2007 , quando Di Pietro era ministro alle Infrastrutture e vennero raccontati dall’imputato, noto tra l’altro per essere l’imprenditore che rise del terremoto di L’Aquila, in una lunga intervista a ‘Repubblica’. «A Isernia avevo vinto – disse -. Ricordo il giorno in cui, nel teatro di via della Ferratella, si stavano aprendo le buste. Trentuno dicembre 2007, le gare truccate si indicono l’ultimo dell’anno, quando gli altri non ci sono. Chiama al telefono il funzionario Bentivoglio. Salgo al piano, mi dice: ‘Hai fatto un progetto bellissimo, l’appalto è tuo’. Torno in teatro, l’atmosfera è già cambiata. Commissari che si chiamano da parte. Il presidente del concorso dichiara il vincitore: è un’associazione temporanea di imprese guidata dalla molisana Rocco Lupo. Sono secondo. Cerco Bentivoglio, è pallido, ha paura. Riesce a dirmi: Bertolaso ha chiamato Balducci, Di Pietro ha imposto Lupo, mi dispiace».
Immediata la replica di Di Pietro che presentò querela per calunnia nei confronti dell’imprenditore campano. Gli elementi raccolti in fase di indagine portarono al rinvio a giudizio dell’imputato e, quindi alla sua condanna. «Resta da pensare – si legge nella sentenza – che De Vita abbia solo potuto basare la sua convinzione circa la credibilità di quanto asseritamente riferitogli dal Bentivoglio su un astratto quanto avvilente pensiero di condivisione di comportamenti illeciti e corruttivi da parte di chiunque eserciti il potere, convinzione che non può trovare un avallo, né sociale né giuridico, con valore scriminante».