Prima dell’Anno Mille il Mare Adriatico fu bacino esclusivo di incursioni da parte di navigli corsari, i cui equipaggi erano costituiti da saraceni che attaccavano, depredandoli, i borghi che si affacciavano sul mare e da lì poi dilagavano verso l’interno.
Tra queste fortificazioni Termoli che, prima della devastante invasione del 2 agosto 1566, venne attaccata nell’827, nell’842, nell’851, nell’884 e nel 947.
Prima della metà del Secondo Millennio l’Impero Ottomano, il quale raggiunse il massimo della potenza al tempo di Solimano il Magnifico (1494-1566), si trovò ad avere come rivale nel controllo dei mari la Repubblica di Venezia. La visione espansionistica del Sultano considerò ostacoli le città che davano sui mari del Mediterraneo, in particolare quelle dell’Adriatico.
Solimano, a tale scopo, fece predisporre una flotta di 150 galee al comando dell’ammiraglio Pialy Pascia sulle quali vennero imbarcati circa 30.000 Giannizzeri, Spachi e Mogolani al comando del generale di terra Mustafà .
Tra la fine del XV secolo e quella del XVI Termoli, sede di Ducato, aveva registrato un lento costante processo di ripresa favorito soprattutto dai traffici commerciali, anche con l’attuale Croazia. Il miglioramento economica aveva portato il numero dei ‘fuochi’ da 150 a 372 (a. 1561) e gli abitanti da 800 a circa 2.300.
Mentre all’interno del Borgo fortificato la vita scorreva tranquilla Pialy Pascià , fallita la conquista di Malta (1565), diresse la flotta verso le Isole Tremiti ritenendole difficilmente difendibili dai Canonici Regolari Lateranensi che, in quanto monaci, li ritenne poco esperti nell’uso delle armi. Prima di orientare la flotta verso le Diomedee fece rotta su Pescara, poi Francavilla, Ortona, San Vito e infine Vasto che attaccò e invase lasciandosi dietro morte e distruzione: era il luglio del 1566.
Le notizie arrivate a Termoli avevano allarmato il vescovo, il mastrogiurato (sostituto del Duca Ferrante di Capua che viveva a Napoli) e il capitano gettando la popolazione nello sgomento che divenne disperazione il 31 luglio allorché la flotta si profilò all’orizzonte. La sera del giorno dopo le galee saracene calarono le ancore nelle acque del Borgo. I militi e i civili validi nell’uso di qualsiasi mezzo, come forche pale roncole pentoloni da riempire d’olio e, all’occorrenza, di sabbia da versare bollenti sugli scalatori, avevano già ricevuto le disposizioni per la difesa.
Le Autorità , consapevoli della impossibilità di contenere l’attacco, predisposto il piano teso a ritardare la caduta del Borgo, al tempo stesso avevano dato disposizioni ai banditori di indicare al popolo il tempo e il luogo di raccolta per il suo abbandono.
All’alba l’attacco ebbe inizio con le colubrine che lanciarono palle di fuoco all’altezza delle mura, per aprirvi delle brecce, e sul Borgo colpendo il duomo, il castello, le case e le piazzette mentre dalle scialuppe sbarcavano sulla scogliera i saraceni armati fino ai denti e con le scale che andarono ad appoggiare alle mura sgretolate.
I difensori, dagli spalti della muragli e del castello, riuscirono a rallentare l’attacco ma non a fermarlo. Da qui l’ordine dell’abbandono: bambini, donne, anziani e vecchi e infine gli uomini validi con una spada in pugno e militi, che per ultimi avevano lasciato gli spalti, si incamminarono verso lo slargo antistante l’attuale fontana (tra Strada Duomo e Via Pustierla) dove, uno dopo l’altro, presero a scendere la scalinata della botola, guadagnarono il cunicolo sotterraneo e lo percorsero fino alla postierla (ancora visibile -tra la base del castello e la muraglia- in foto degli anni ’20), la via di fuga verso i campi e i boschi circostanti.
Con il rallentare della risposta dei difensori gli attaccanti, in preda all’ebbrezza di una nuova conquista, dalle mura si rovesciarono sulle strade e nei vicoli mettendo a ferro e fuoco la città . Alla furia e alla scimitarra saracene non sfuggì neppure chi, per non lasciare la propria casa, si pensò al sicuro in una cisterna o sotto un mucchio di grano.
Con il calare del sole, a devastazione compiuta, i saraceni si diedero alle gozzoviglie e agli sfregi dei luoghi sacri, compreso l’accatastamento di legna nella navata centrale del Duomo alla quale diedero fuoco che presto si trasformò in un incendio le cui fiamme non soltanto danneggiarono l’interno, compreso le colonne, ma arrecarono danni enormi alla facciata le cui bifore raccontavano, con bassorilievi su formelle di pietra, alcuni episodi del Vangelo.
La distruzione dei luoghi annessi alle chiese e dei palazzi dei possidenti comportò anche la riduzione in cenere delle pergamene e delle carte che vi si trovavano, cancellando così e per sempre ogni traccia della più che millenaria storia di Termoli.
Dalla galea ammiraglia Pialy Pascià , Mustafà e altri comandanti, banchettando, si godevano lo spettacolo del Borgo le cui fiamme illuminavano la notte.
Questo accadde nella nostra Città 467 anni fa.
Antonio Smargiassi