Oltre alla condanna penale e alla sanzione amministrativa, il giovane venafrano dovrà pagare pure 3.000 euro alla Cassa delle ammende: questo è quanto ha stabilito in via definitiva la Cassazione che è stata chiamata a giudicare sul ricorso da parte del 22enne beccato nei mesi scorsi dalle forze dell’ordine in un’area vietata con un cinghiale in auto, insieme ad un amico. In particolare, il riesame era stato chiesto avverso il decreto di sequestro probatorio del Pm presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere di un cinghiale morto, in relazione ai reati di cui agli articoli 18 e 30 legge 157 del 1992 (esercizio della caccia nei parchi regionali).
Proprio così. Perchè la coppia era stata sorpresa in un’area protetta.
In buona sostanza, come ricostruito dalla difesa «per il Tribunale del riesame i due indagati furono fermati nel perimetro del Parco regionale di Roccamonfina e Foce del Garigliano, ed esercitato ivi l’attività venatoria vietata nel periodo. Il decreto di convalida del sequestro del Pm però non conteneva nessun motivo sul fumus dei reati. I due indagati, inoltre, non avevano armi e non sono stati rinvenuti in atteggiamenti da caccia. Il Tribunale del riesame avrebbe dovuto solo valutare la motivazione del provvedimento di convalida e non individuare in via autonoma il fumus dei reati in accertamento. Infine, i due indagati percorrevano una strada provinciale che non rientra nella perimetrazione del parco indicato dal Tribunale del riesame; il cinghiale non era nascosto, ma visibile, non ucciso dai due indagati che lo hanno trovato già morto».
I due hanno pertanto chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
Di diverso avviso, però, sono stati i giudici della Suprema Corte. Infatti, «il provvedimento impugnato contiene adeguata motivazione, non contraddittoria e non manifestamente illogica con corretta applicazione dei principi in materia espressi da questa Corte di Cassazione, e rileva come il fumus dei reati ìn accertamento risulta dalla circostanza che gli indagati sono stati fermati in una zona ricompresa nella perimetrazione del Parco regionale della Campania dove al momento del controllo non era consentita la caccia al cinghiale. Il provvedimento di convalida, del resto, richiamava l’attività di Polizia giudiziaria e indicava le esigenze probatorie in relazione alla necessità di analisi sul cinghiale per accertare le cause della morte (proprio in relazione alle dichiarazioni degli indagati che avevano raffermato di aver trovato il cinghiale già morto). Nel ricorso in Cassazione i due indagati affermano che la strada dove furono fermati non è ricompresa nel perimetro del Parco, ma tale questione oltre a non essere stata sottoposta al Tribunale del riesame risulta solo assertiva, non documentata».
Insomma, «la distruzione del cinghiale non risulta determinante in quanto gli esami sullo stesso (per accertarne la causa della morte) potevano essere compiuti prima dello smaltimento. Infatti, emerge dagli atti di Polizia giudiziaria (sequestro e notizia di reato) che, dopo il sequestro, il cinghiale è stato analizzato dal veterinario dell’Asl di Caserta, ed aveva constatato il decesso dell’animale a causa di ferite con arma da fuoco; solo successivamente il cinghiale è stato smaltito, per assenza di idonea ed adeguata struttura per conservare l’animale».
Stando così le cose, i giudici di ultima istanza hanno sentenziato come «alla dichiarazione di inammissibilità consegue il pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di 3.000,00 euro, e delle spese del procedimento, per ciascun ricorrente».
Per il giovane venafrano ed il suo amico, dunque, il cinghiale è costato davvero tantissimo. Probabilmente la prossima volta eviteranno di recarsi in zona protetta.