Un’intervista appassionata, senza filtri che descrive l’epopea di un politico che per oltre 20 anni è stato il protagonista indiscusso della scena politica molisana. Michele Iorio si confessa e racconta una lunga stagione fatta di gioie, ribaltoni, retroscena ma anche dolori atroci come la morte dei genitori in giovanissima età. Un episodio che ha cambiato radicalmente la sua vita e lo ha spinto ad intraprendere l’arte del governo.
Michele Iorio, cominciamo da un ricordo di infanzia.
«Il trasferimento da Morrone del Sannio, dove sono nato, a Isernia fu un forte cambiamento, con il passaggio da un piccolo centro dove giocavo liberamente nei vicoli di pietra con i miei amici ad un ambiente cittadino. Ci spostammo per seguire mio padre che era sindacalista e funzionario dell’Inam, l’Istituto delle Assicurazioni per le Malattie, la cosiddetta ‘cassa mutua’».
Erano gli anni difficili della ricostruzione.
«Ricordo gli stenti, la povertà dell’economia. Pur essendo figli di un impiegato non si navigava nell’oro e si conduceva una vita modesta. Si facevano sacrifici: i primi anni a Isernia vivevamo tutti e cinque, compresi i miei fratelli Nicola e Rosetta, in due stanze, ospiti della famiglia Buccini. Avere i soldi per comprare il gelato era una festa».
Poi l’Università.
«Ho scelto Medicina, quasi per obbligo vista la dimestichezza familiare con l’ambiente sanitario. Mi sono laureato e specializzato in Chirurgia generale ed urologia ed ho cominciato subito a lavorare, fino al 1990 all’ospedale Veneziale di Isernia».
Nel ‘68 avevi 20 anni. Come hai vissuto quell’epoca ‘bollente’?
«Partecipai attivamente al movimento studentesco. La Casa dello studente era la fucina della contestazione ed io inizialmente mi collocai all’estrema sinistra. Andavamo alle manifestazioni coi caschi e contestavamo fortemente il Partito comunista. La critica al Pci era l’unico punto di convergenza con mio padre, democristiano, che intanto era diventato consigliere comunale e regionale grazie ad un forte stima e consenso popolare conseguiti per la sua grande vicinanza alla gente».
Una fase durata poco, comunque.
«Nella fase più matura della mia formazione mi sono allontanato dalla contestazione tornando nei ranghi e recuperando quei valori cattolici solidaristici che avevo respirato in famiglia».
Qual è stata la spinta per il passaggio alla politica attiva?
«Purtroppo è legata ad una tragedia familiare. A 27 anni persi mia madre e mio padre, deceduti in un incidente stradale. Fu un cambiamento totale, rimasi a guidare la famiglia da fratello maggiore, perdendo immediatamente la spensieratezza della gioventù per passare ad una vita di responsabilità. Da tutti gli amici di mio padre venne una forte spinta a continuare la tradizione familiare di impegno politico, che avevo sempre seguito con passione e interesse. Mi candidai al Comune di Isernia, dove fui primo eletto della Democrazia cristiana ed alla Provincia. Nonostante i consensi non riuscii a diventare sindaco, per le norme non scritte che imponevano, nella DC, una fase di attesa. Insieme a Lelio Pallante fondammo la corrente basista, per rompere il vecchio schema dominante dei fortissimi dorotei (Santoro, Vecchiarelli, Sedati) e fanfaniani. Diventai comunque assessore provinciale ai Lavori pubblici e quando alle elezioni successive ripresi una valanga di voti, stra-primo eletto con 1.500 preferenze sopra il secondo, si ripropose lo stesso problema. Non volevano che facessi il sindaco».
E quindi?
«Con Lello Lombardi ruppi la maggioranza e diventai sindaco portando in giunta i socialisti, per la prima volta nella regione; la DC avviò dei provvedimenti disciplinari, ovviamente finiti nel nulla».
Sembrano prove tecniche del ribaltone regionale che segnò il decennio successivo.
«Fui sindaco di Isernia per due anni, poi passai alla Regione e per incompatibilità abbandonai l’ospedale, di cui da allora mi è sempre mancata la sala operatoria. Anche in Regione rompemmo con Aldo Patriciello la regola che imponeva un lungo periodo di attesa e divenni subito assessore».
Con Patriciello è iniziato un lunghissimo periodo di collaborazione ma anche di dualismo nel quale avete dominato la scena politica regionale.
«Scegliemmo insieme i Popolari e con l’Ulivo vincemmo le regionali con Marcello Veneziale presidente. Io ho sempre lavorato per linee politiche, lui è più attento a quelle organizzative e all’attività imprenditoriale».
Poi sei diventato presidente della Regione, detronizzando Marcello Veneziale con il famoso ribaltone che assurse alla ribalta nazionale.
«Le cose non stanno così. Allora il presidente eletto doveva restare in carica per due anni, poi poteva essere sostituito, ed i patti, anche se non esplicitamente dichiarati, erano quelli: una staffetta tra sinistra e popolari».
E l’alleanza andò a pezzi.
«Passai con Forza Italia, fui eletto alla Camera dei deputati e, dopo la breve parentesi della giunta Di Stasi tornai presidente del Molise».
Un percorso molto movimentato. Sei anche stato eletto al Senato, ma hai sempre optato per la Regione dove hai potuto esercitare un potere ed una iniziativa reali evitando di fare il peones a Roma. Il resto è storia recente. Sai che qualcuno ti ha definito scherzosamente ‘l’ultimo dei comunisti’?
«Se si riferisce alla sensibilità sociale, alla cultura redistributiva e solidale delle risorse tra territori e persone, alla distanza dal liberismo selvaggio, potrebbe avere anche ragione».
L’accusa che ti viene fatta è quella di aver praticato incessantemente una politica clientelare.
«Mi chiedo se sia possibile oggi l’esistenza di partiti che in un modo o nell’altro non facciano clientelismo. Chi è senza peccato scagli la prima pietra».
Ti vengono rinfacciati anche il familismo, le carriere dei tuoi congiunti.
«Sono infamie. Non ho mai fatto nulla per favorire i familiari».
Ne conosco personalmente il grande valore umano e professionale e certe accuse mi sono sempre sembrate ingiuste e strumentali, ma puoi almeno ammettere che, in generale, c’è stata poca attenzione alla meritocrazia nell’assegnazione di posti pubblici ed incarichi?
«Errori ne sono stati fatti».
E comunque hai subito diversi procedimenti giudiziari.
«Ben 23 dai quali sono uscito completamente indenne. Un destino comune condiviso con tanti amministratori locali, da inscrivere nella degenerazione del rapporto tra magistratura e politica a cui abbiamo assistito».
In Alto Molise hai raccolto per anni ed anni consensi bulgari, crollati dopo l’accusa di aver fatto chiudere l’ospedale cittadino.
«È un falso storico. Ho sempre pensato che Agnone avesse tutti i titoli ed i diritti di aver un ospedale e mi sono sempre battuto contro i tagli voluti dal governo centrale raccogliendo le istanze delle amministrazioni locali, sia di destra sia di sinistra».
Credi negli accordi di confine per salvaguardare i servizi?
«Sono semplicemente una fregatura a tutto vantaggio dell’Abruzzo. Pensa alla fine dell’ospedale di Termoli oppure a come l’Abruzzo ha utilizzato il termovalorizzatore di Pozzilli per evitare rischi ambientali nel proprio territorio».
In ogni caso hai pagato in termini di consensi. Solo 26 voti di lista ed una manciata di preferenze ad Agnone nelle ultime regionali.
«In effetti mi aspettavo di più ma se anche qualche grande amico mi ha confessato di votare per il candidato agnonese alla presidenza non c’era da illudersi molto».
Come giudichi Andrea Greco? Si è anche parlato di un certo feeling.
«È un giovane che crede con entusiasmo nelle sue tesi e personalmente mi risulta molto simpatico, anche se ultimamente lo vedo un po’ troppo attento alle manovre politiche».
Gli amici agnonesi che ti sono stati più vicini?
«Tra i tantissimi voglio ricordare Franco Giorgio Marinelli, Gelsomino De Vita, Emilio Orlando. Stimo molto Vito Alfonso Gamberale, con cui mi sono confrontato proficuamente molto spesso».
Come mai Agnone dopo Remo Sammartino e Bruno Vecchiarelli non è riuscita ad esprimere più leader regionali di primissimo piano?
«Non perché mancassero personaggi di qualità, quanto piuttosto per il ridotto peso demografico e di conseguenza elettorale».
Molti pensano che l’autonomia regionale sia stata un danno, vorrebbero tornare con l’Abruzzo.
«A Costituzione invariata rinunciare ad una ipotesi di rappresentanza è un assurdo. Una pecca che ho attribuito ad alcuni tuoi concittadini agnonesi è quella di favorire strampalate ipotesi di ri-aggregazione territoriale».
Fatto sta che le aree interne sono da anni in crisi profonda.
«Il Molise è tutto un’area interna. Proprio per questo ho sempre pensato a costruire servizi di qualità che potessero servire bacini di utenza più vasti. Quanto all’alto Molise ne ho sempre compreso la specificità proponendo soluzioni a livello infrastrutturale, come la fondovalle Verrino, e favorendo le iniziative economiche e produttive, anche se va riconosciuto che la politica non può assumersi tutte le responsabilità».
Come vedi oggi il Molise?
«Impoverito, debole, privo di prospettive…»
…ma lo hai governato per decenni, non credi di avere responsabilità?
«Stavo appunto dicendo che il Molise, oggi, è molto più debole rispetto a quando ne lasciai la guida. Tutti gli ospedali erano aperti. Tutte le vertenze economiche, la Gam, lo Zuccherificio, l’Ittierre sono state chiuse senza una proposta o un piano industriale. Tutti i grandi progetti, dall’autostrada del Molise all’Università sono stati lasciati cadere. Da 10 anni non c’è stato un progetto politico degno di questo nome ma solo mera e pessima gestione dell’ordinario; in altri termini, politica di bassa lega».
Adesso sei vicino a Fratelli d’Italia. Ma cosa ci fa un moderato, un popolare, un europeista come te in un partito di destra e, soprattutto, pensi di continuare il tuo impegno politico?
«Non ho nessuna intenzione di mollare. Sono convinto di poter ancora svolgere un ruolo e di poter essere utile vista la drammatica situazione attuale. Voglio portare il mio contributo, la mia esperienza ed i miei valori in un partito di centrodestra inclusivo facendo da punto di riferimento per una iniziativa politica con un gruppo dirigente nuovo e più qualificato».

Italo Marinelli

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