Un sindaco che ha saputo trasformare le fragilità del suo comune in punti di forza attraverso progetti virtuosi. Amministratore di lungo corso, Lino Gentile si è dimostrato in questi venti anni soprattutto un amministrare lungimirante che ha creato opportunità di sviluppo attraverso ‘nuovi’ circuiti occupazionali, prima con rsa e albergo diffuso di Borghi Tufi, poi col meleto bio e l’apiario di comunità. A 21 anni dalla prima delibera di consiglio comunale che dava il via libera agli studi di fattibilità per riqualificare vecchie case abbandonate, poi trasformate in strutture ricettive ideali per chi ama tranquillità e relax, a Castel del Giudice è ancora tutto un work in progress. E il suo ‘storico’ sindaco stavolta ha davanti a sé una prova ambiziosa ma non priva di ostacoli: spendere bene e in poco tempo una montagna di quattrini grazie al Pnrr.
Il Comune di Castel del Giudice si è aggiudicato il bando da 20 milioni per un progetto denominato “Centro di (ri)Generazione dell’Appennino”. Sindaco, sono un sacco di soldi, può spiegarci come saranno utilizzati?
«Alla base del progetto c’è l’idea di costruire una comunità delle competenze che mira a far diventare Castel del Giudice il luogo della sperimentazione del divenire contemporaneo secondo i principi della sostenibilità ecologica e di una nuova modalità di vita nelle are interne, attraverso nuove forme di economia, nuovi modelli di socialità e nuove formule di residenzialità. Dal punto di vista fisico, saranno realizzati: incubatori di start up, senior social housing – appartamenti protetti per anziani autosufficienti, che vivono insieme in modo indipendente, con servizi e assistenza – abitazioni per nuovi abitanti, che saranno di supporto per nuovi ambienti per lavorare e per vivere, strutture per lavoratori digitali, smart working, co-housing, welfare e telemedicina, che contribuiranno a costruire un nuovo concetto di abitabilità. Dal punto di vista immateriale, i temi della cultura e della creatività caratterizzeranno il processo di rigenerazione locale, mediante attività utili all’incremento del ruolo culturale, la riscoperta dei saperi produttivi e della qualità della vita, per promuovere il benessere dei residenti e dei ritornanti».
Quanti posti di lavoro si creeranno?
«Con le iniziative che abbiamo messo in campo negli ultimi anni, abbiamo creato circa 100 posti di lavoro. Partiamo già da un risultato. Ora l’obiettivo è di raddoppiare, consolidando e ampliando le possibilità lavorative».
Non è preoccupato per i tempi, così come altri suoi colleghi, vista la carenza di personale nei piccoli comuni e le procedure non sempre semplificate? Il nodo della rendicontazione non la impensierisce: ultimare interventi per 20 milioni di euro entro le scadenze fissate dall’Ue non è proprio una passeggiata.
«La preoccupazione c’è, ma c’è anche la consapevolezza di costruire un sistema di competenze professionalmente trasversali che rafforzeranno la struttura amministrativa, con l’obiettivo di raggiungere in modo efficace gli obiettivi fissati rispetto ai tempi del progetto. Vogliamo farlo, creando un sistema organizzativo innovativo: l’istituzione dell’ufficio unico di progettazione di rigenerazione, che vede il coinvolgimento delle più prestigiose università italiane (Politecnico di Torino, Università di Roma La Sapienza, Università dell’Aquila e Unimol). Un altro elemento fondamentale è la creazione di un centro di formazione permanente sulla rigenerazione a vantaggio del territorio».
L’albergo diffuso Borgo Tufi, rsa, meleto: il ‘modello Castel del Giudice’ nasce da una sua intuizione e negli anni si è guadagnato a ragione l’appellativo di modello di resilienza, un esempio che però non è stato replicato.
«Ogni comune ha la propria strategia, nasce da condizioni ambientali diverse. Ci sono tante esperienze, anche in Molise, rincuoranti, dove sono state messe in campo azioni per arginare lo spopolamento. Uno degli obiettivi è di mettere in rete queste esperienze per farle diventare un laboratorio in movimento. Possono diventare la base per un inedito modo di essere dell’Appennino».
La sua idea ha trovato sostegno economico in partner privati. Un laboratorio di sviluppo nel segno della rigenerazione urbana e della sostenibilità ambientale. Una formula, pubblico-privato, che si è rivelata vincente qui ma che altrove ha sempre trovato resistenze. Perché?
«Ognuno trova la soluzione in base alle opportunità che incontra e che riesce a creare, non esiste una sola filosofia. La chiave è di non piangerci addosso, dalla rivendicazione dobbiamo passare alla proposta».
Una fiscalità di vantaggio aiuterebbe le aree interne ad essere attrattive incentivando i giovani che ci sono quanto meno a restare?
«La fiscalità di vantaggio è un’opportunità, ma da sola non è sufficiente. Aiuterebbe le aree interne ad essere riabitate, contribuendo fiscalmente con costi più bassi. Nella delega fiscale approvata di recente dal Parlamento, c’è la possibilità per il legislatore di riconoscere forme fiscali di vantaggio per aree marginali, al fine di contrastare il divario territoriale. L’auspicio è che il governo possa riconoscere questo strumento per aumentare la capacità attrattiva del territorio».
L’emorragia demografica è una delle grandi emergenze che attanagliano il Molise e soprattutto i piccoli paesi. Ma se a Castel del Giudice, elevato a modello di resilienza, vivono appena 308 anime (nel 2001 erano 356), dobbiamo anche dire che da soli non si va da nessuna parte. Altrimenti non ci resta che cambiare narrazione dando una lettura più realistica al tema delle disuguaglianze territoriali dicendo con franchezza che ritmi, richieste ed esigenze della società moderna sono incompatibili con la lentezza di queste aree. È d’accordo?
«Il progetto di rigenerazione di Castel del Giudice è pensato guardando all’intero territorio, che potrà trarne vantaggio. Negli anni abbiamo ridotto il decremento demografico, abbiamo nuove nascite e nuovi abitanti, ma soprattutto abbiamo creato una base per costruire nuove iniziative, creando più attenzione ai desideri e alle aspirazioni dei giovani della comunità. Lo spopolamento non riguarda solo le aree marginali, ma l’intero Paese. Il divario qualitativo dal punto di vista dei servizi è un handicap. L’idea nostra è quella di scommettere sulle marginalità dei nostri territori, facendone occasione per creare nuove forme di economia: creare lavoro, che è l’unico antidoto allo spopolamento. Le esigenze della società moderna non sono incompatibili con le aree interne, anzi, i limiti del sistema economico e sociale moderno possono essere una soluzione, soprattutto se guardiamo agli obiettivi Onu dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. I piccoli comuni possono essere una risposta al dramma della modernità, sia dal punto di vista ambientale che sociale».
Bruxelles e Roma hanno rimesso al centro i ‘margini’ con la Snai (Strategia nazionale delle aree interne), una politica innovativa pensata dieci anni fa e che punta proprio a contrastare la marginalizzazione ed i fenomeni di declino demografico dei territori fragili, quali sono le aree interne del nostro Paese, che coprono il 60% dell’intera superficie del territorio nazionale, il 52% dei Comuni e il 22% della popolazione. Una strategia per ‘salvare’ l’Italia più vera e più autentica migliorando i servizi essenziali e dando nuove opportunità di sviluppo, ma siamo appena all’inizio nonostante il progetto sia partito nel 2013.
«I tempi dell’amministrazione della politica non sono coerenti con i tempi delle persone che vivono nei piccoli comuni. La Snai ha concentrato la questione dello spopolamento sul mantenimento e la creazione di servizi. Non si può riequilibrare il modello abitativo solo con i servizi, ma bisogna implementare forme nuove di lavoro. Dobbiamo pensare già alla Snai 2.0, con due obiettivi: semplificare le procedure e mettere in campo un sistema di agevolazioni per lo sviluppo. Queste aree marginali possono diventare l’avamposto per sperimentare nuovi modelli economici e sociali. I tempi della Snai sono lenti, sono complicati a livello amministrativo, non incidono sull’essenza, bisogna invece creare opportunità nuove, le condizioni per vivere e lavorare. Tutto questo si può fare sfruttando le apparenti debolezze: agricoltura sostenibile, innovazione con lo smart working e le nuove tecnologie, turismo lento. La transizione deve essere strategica: tecnologica, ambientale e sostenibile».
Alla vigilia delle regionali si era fatto anche il suo nome per la presidenza del centrosinistra ma lei ha declinato l’offerta. Perché?
«Ognuno deve onestamente rendersi conto dei propri limiti e non ritengo di avere le qualità e le attitudini per svolgere questa funzione: un presidente di Regione deve avere una visione strategica e nello stesso tempo capacità attuativa. Credo che tutti possano dare il contributo al bene comune facendo bene la propria piccola parte».
alessandra longano