Parterre d’eccezione, diagnosi precisa e individuazione della terapia: la sanità pubblica italiana sta male, peggio che prima della pandemia (inaspettatamente per tanti ma non per chi approfondisce i fenomeni e sa in anticipo dove porteranno le tendenze). Il servizio pubblico, basato sulla fiscalità generale, garantisce sempre meno servizi e in tempi sempre più lunghi. Senza una cura per la quale c’è ancora tempo anche se siamo quasi al punto di non ritorno – una cura che passa per la volontà politica di investire sulla sanità e allineare l’Italia per esempio alle percentuali di spesa dei Paesi del G7 – non ci sarà alternativa alla privatizzazione, alla sanità delle assicurazioni. E allora «sarà un disastro non solo sanitario ma anche sociale ed economico» per usare la sintesi di Nino Cartabellotta.
Il presidente della Fondazione Gimbe, insieme al capo della Federazione degli Ordini dei medici Filippo Anelli, al prof di Tor Vergata ed esperto divulgatore Ivan Cavicchi, ai segretari dei sindacati nazionali di categoria, è intervenuto al convegno organizzato dall’Omceo di Campobasso guidato da Giuseppe De Gregorio. Crisi delle cure e del sistema di equità, il titolo dell’incontro – aperto dall’analisi di Carolina De Vincenzo – che fotografa lo stato dell’arte. Completato da una domanda: è ancora possibile un patto di salute fra Stato e cittadino?
Lo è e deve esserlo, ha detto Anelli alla folta platea dell’auditorium di Palazzo Gil. Bisogna difendere il Ssn perché la «tendenza ad andare verso il sistema delle assicurazioni aumenterà le disuguaglianze nell’accesso alle prestazioni». Da questo punto di vista, ha aggiunto, «suscita molte preoccupazioni» l’autonomia differenziata perché incrementa «ancora di più le distanze». Due le sfide: rimpolpare la sanità sul versante del personale e puntare sulla medicina territoriale. Fondamentali a suo parere, in quest’ottica, i 15 miliardi che il Pnrr destina alla missione salute.
Servono quindi medici veri. Ma anche medici “politici”, ha aggiunto il presidente della Fondazione Gimbe, che scelgano di capire come il servizio sanitario nazionale può rimanere sostenibile e garantire davvero quanto sancito dalla Costituzione. Numeri alla mano, Cartabellotta ha dimostrato che la spesa sanitaria in Italia, con qualsiasi governo, da dieci anni a questa parte scende costantemente o resta fissa al 6% del Pil. Solo nei due anni della pandemia si è investito di più, nonostante questo le Regioni non sono riuscite a coprire i costi. I tagli lineari hanno colpito il personale, su cui ha influito negativamente poi il Covid (con dimissioni e sindrome da burnout). Questo significa liste d’attesa infinite. Quindi l’accesso universale va a farsi benedire. Aumenta il ricorso alle strutture private, la spesa delle famiglie per pagare prestazioni che lo Stato dovrebbe garantire. Aumenta il numero di chi rinuncia a curarsi. Concetti, è stato evidente anche dalle slide proiettate da Cartabellotta, drammaticamente più veri in Molise che insieme alla Calabria è in fase di commissariamento infinito.
Non è un caso, ha concluso il presidente di Gimbe, che le tre Regioni che hanno chiesto l’attuazione dell’autonomia differenziata siano anche quelle in cui è più alto il saldo di mobilità (quindi la cifra che entrerebbe direttamente nelle loro casse dalle cure a pazienti residenti e non). Autonomia che per Cartabellotta «darà il colpo finale al Ssn». Un malato, ha concluso, ancora trattabile a patto di definire quante risorse si vogliono investire per mantenerlo e rafforzarlo.
Per Ivan Cavicchi, invece, non c’è più speranza. In un intervento appassionatamente “rabbioso” ha spiegato perché. Il suo ultimo libro, non a caso, lo ha intitolato: “Sanità pubblica addio: il cinismo delle incapacità”.
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