La trombolisi, terapia che salva la vita e la qualità della vita a chi è colpito da un ictus, e la realizzazione di un vecchio ‘sogno’ della sanità molisana come la stroke unit al Cardarelli. Un modello organizzativo che prima non c’era. Non cita i conti in ordine, ma comunque il primo bilancio in pareggio della storia, l’Asrem lo ha raggiunto durante il suo mandato. Un mandato molto orientato all’innovazione. Al successore, Gennaro Sosto lascia anche l’avvio dei concorsi per i primari che mancano in organico, la prima tranche già pronta a partire, le altre sono state autorizzate e seguiranno.
Ultimo giorno da direttore generale dell’azienda sanitaria del Molise, oggi. Da lunedì sarà a capo dell’Asl Napoli 3.
Quali sono i punti qualificanti dell’offerta sanitaria che l’Asrem offre dopo gli anni del suo mandato?
«Direi, in generale, l’organizzazione: un hub e due spoke e l’offerta territoriale, che credo possa essere vincente per una regione come il Molise. L’hub di Campobasso, magari anche di rilevanza universitaria, fulcro di un sistema che fa da perno per Termoli e Isernia. Mettere in sinergia le risorse e dare alla popolazione un’offerta per livelli diversi di assistenza consentirebbe di arrivare dal domicilio dell’utente agli ospedali. C’è la situazione annosa di alcune specialità che secondo il dm 70 non possono essere fornite per una questione di numeri: lì si devono aprire discorsi di portata diversa per capire cosa si può offrire in termini di servizi di livello superiore o come organizzare la rete».
Cardiochirurgia e neurochirurgia: le prestazioni dal maggiore impatto psicologico e sociale. Sapere che la sanità pubblica regionale non le eroga spaventa.
«Assolutamente sì. Però facciamo un’analisi: secondo gli standard il Molise per alcune metodiche è intorno al 50% o in alcuni casi addirittura sotto il 50% dell’utenza che dovrebbe avere un sito per erogare alcune specialità. Allo stesso tempo, ha degli erogatori privati che compensano quello che dal punto di vista normativo non potrebbe essere offerto. Parlo di Cattolica e Neuromed. Vedo quindi un’offerta complessivamente idonea, con degli aggiustamenti che vanno fatti».
C’è sempre il tema della deroga…
«Il sistema della salute può decidere di garantire un servizio alla popolazione anche se economicamente è in perdita. Ma se le società scientifiche dicono che al di sotto di un certo numero di casi – siano i parti nei punti nascita o gli interventi di cardiochirurgia o neurochirurgia – un sito non è sicuro, la deroga vorrebbe dire “abbiamo scherzato, anche se i casi sono la metà il livello di sicurezza lo si raggiunge lo stesso”. L’approccio delle società scientifiche non è questo».
La riorganizzazione però ha portato a un arretramento dal territorio. È vero, non potremo avere più la sanità di una volta, ma non si possono offrire meno servizi.
«Il modello a cui siamo abituati è che quando ho un problema vado in ospedale e lì avviene la diagnosi. Purtroppo questo modello non è più perseguibile, non possiamo più pensare di fare diagnosi ricoverando in strutture per acuti: stiamo cercando di capire che patologia ha una persona, non c’è una fase acuta. Oggi si fanno gli esami, uno screening che può durare più giorni e non è detto che debba essere oggetto di ricovero ospedaliero. Forse dobbiamo essere noi più bravi a intercettare il bisogno dal punto di vista territoriale, forse ci vuole anche un approccio culturale un po’ diverso. Dobbiamo creare un circuito virtuoso che porti l’utente ad avere meno disagi possibili, un percorso bene organizzato che chiamiamo presa in carico. La presa in carico territoriale sarà la sfida del futuro, non l’ospedale. Certo, non possiamo pensare di staccare la spina a un modello che ci è appartenuto per 50 anni e averne uno nuovo già pronto, rodato e funzionante. Ma dalle altre regioni, forse non ci rendiamo conto, guardano al Molise con curiosità».
La riconversione di Larino e Venafro, lei dice, ha funzionato. Ci dia qualche dato.
«A Larino oggi forniamo circa 100 pasti, vuol dire che ci sono 100 ricoverati dell’area territoriale. Dal 2010 in poi, non si arrivava a 100 pasti per ricoverati ‘acuti’. Questa è una grande vittoria, perché insieme a chi l’ha pensata – commissari, Ministeri e Regione – nella riorganizzazione abbiamo portato avanti un modello che avesse riguardo anche delle criticità sociali dei territori. Non dico che ti aspetti lodi sperticate, ma neanche una battaglia continua, senza un confronto costruttivo. Neanche ti aspetti che sia difficile comunicare queste cose agli utenti, al cittadino perché il problema è che non c’è più il Pronto soccorso… Guardi, se c’è un messaggio che vorrei lasciare prima di andare via è che le conflittualità non aiutano. Bisogna ragionare non tanto su cosa si vorrebbe ma su cosa si può fare. Altrimenti questo sistema non reggerà, sarà condannato a scomparire o ad avere drastiche riduzioni. Non bisogna fare l’errore di arrivare al punto di non ritorno e farsi governare da qualcuno che non conosce il territorio. Bisogna assumere le decisioni con coraggio e con fermezza, analizzando il contesto. Quando un medico non lo troviamo, hai voglia a dire: bisogna tenere aperto il Pronto soccorso x. Mettere una pezza per un mese non serve a nessuno».
E medici, negli ultimi mesi soprattutto, non ne avete trovati.
«È un problema non solo del Molise, ma nazionale. Non credo ci sia una regione in Italia che non sconti la mancata programmazione sanitaria. Però piangersi addosso, dire “vogliamo avere i medici” e non sedersi al tavolo per trovare la soluzione, lascia chi gestisce da solo».
In questo caso la situazione è peggiore di quella che trovò nel 2016.
«C’era già una difficoltà di organico ma anche la speranza di avviare i concorsi. Che poi abbiamo avviato, abbiamo assunto personale. Anche a causa del fatto che per il blocco del turnover non c’è stato ricambio la voragine di oggi credo sia il problema più grande della sanità molisana. Una collaborazione con il mondo universitario può essere molto importante per formare qui le professionalità del domani, nel frattempo bisognerà cercare soluzioni temporanee, modalità innovative che non sono previste dall’ordinamento. Gli operatori stanno dando un contributo notevolissimo, esponendosi in prima persona e a volte con criticità che ricadono su di loro personalmente».
Altra nota dolente: tantissimi reparti non hanno un primario.
«Quando ho iniziato il mandato c’era una situazione di confusione, riconoscimenti impliciti di ruolo, non ratificati o assunti per consuetudine. Oggi abbiamo un modello organizzativo. Adesso bisogna collocare le pedine nelle caselle che abbiamo creato. È importantissimo mettere al governo di una struttura una persona che ne abbia la responsabilità e non un temporaneo facente funzione, che è un collega degli altri, magari viene visto come un ostacolo alla crescita professionale o un pari grado. Abbiamo adottato atti deliberativi con una serie di prime autorizzazioni per i concorsi dei direttori di struttura complessa, che nelle prossime settimane verranno pubblicati in Gazzetta ufficiale. Da qui bisogna ripartire: un primario bravo, che abbia la legittimazione del ruolo e possa costruire il suo reparto intercettando le risorse, giovani laureandi o specializzandi. Qualche struttura primariale in questi anni è stata affidata, poi abbiamo avuto uno stop per l’avvicendamento della struttura commissariale».
Tra i suoi ultimi provvedimenti, l’affidamento della fornitura di due robot per la telestroke. E quindi a proposito, la stroke unit al Cardarelli si fa?
«Assolutamente sì, sarebbe una sconfitta del sistema sanitario molisano perdere questa opportunità. Non si faceva trombolisi in questa regione. Abbiamo deciso di attivarla, ragionato col primario, creato il gruppo. A fine 2018 i primi trattamenti, quindi il blocco dell’ictus con recupero totale del paziente. Non voglio chiamarlo miracolo ma è un grande intervento. Centralizzare la stroke nell’ospedale principale credo sia doveroso. Penso che nel mese di settembre si possa organizzare già il trasferimento della struttura. Certo, se iniziamo la battaglia perché Isernia perde un pezzo che se ne va a Campobasso… credo che per l’ennesima volta sia quella sbagliata. Per gli altri due ospedali abbiamo il processo innovativo, strumenti di telemedicina che consentono a un Pronto soccorso distante dalla stroke di valutare la possibilità di fare la trombolisi. Il neurologo, da remoto, fa la diagnosi di un ictus in corso e il personale del Pronto soccorso opera la terapia, poi il paziente viene centralizzato nella sede della stroke unit. Dobbiamo raccontare queste verità alle persone. Se invece cerchiamo di tutelare interessi locali o personali dobbiamo avere il coraggio di dire alle persone che non stiamo facendo il loro interesse».
Ci sono stati momenti in cui ha pensato di lasciare?
«No. Ho sempre avuto la fiducia di chi mi ha nominato e di chi mi ha riconfermato, da parte mia penso sempre di aver messo sempre in atto scelte che ritenevo giuste. Purtroppo eventi negativi possono capitare, anche se cerchi di far in modo che non capitino. Il momento forse più complicato è stato quello degli ultimi mesi, il momento in cui ti rendi conto che la tua capacità professionale non riesce ad incidere. Non riesci a reperire risorse umane e ti trovi quasi a dover pietire ai tuoi collaboratori un turno scoperto…».
E una soddisfazione?
«La cosa più bella è quel che noto in questi giorni fra i miei collaboratori e in chi ha fatto parte di quest’azienda: il dispiacere perché vado via. È importante per chi fa il mio mestiere perché vuol dire che si lascia un segno, si è fatto qualcosa di buono».

rita iacobucci

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