«Il peggio è passato». Quelle frasi dannatamente dolci che solo una mamma sa trovare nonostante tutto. Quando Marilena l’ha sentita da sua madre al telefono il giorno di Capodanno si è sentita di sicuro più tranquilla.
Sua madre non c’è più. Se ne è andata, sola dal 21 dicembre in ospedale a Campobasso dove ha contratto il Covid e poi intubata in terapia intensiva, cinque giorni dopo aver detto: il peggio è passato.
Marilena è insieme a suo padre davanti all’Asrem. Quando il direttore Florenzano imbocca, borsa da lavoro in mano e in silenzio, l’ingresso del giardino antistante il palazzo né lei né suo padre fanno un passo. Sono qui per testimoniare che vogliono la verità. Non alzano la voce, non commentano. Nessun gesto che non sia minimamente educato. Chi ha perso un familiare non chiede teste, chiede responsabilità.
Pasqualina aveva 74 anni e qualche patologia cronica, come tantissime persone. Quando ha cominciato a non stare più bene, faceva comunque resistenza: «Non ci voglio andare in ospedale perché ho paura, diceva mamma. Aveva ragione». Il 21 dicembre è stata ricoverata al Cardarelli, ha passato due giorni in pronto soccorso. Prima il test rapido, negativo. Poi l’attesa del referto del molecolare. Negativo anche quello. Affidata quindi alla medicina e appoggiata in chirurgia perché medicina non aveva posti. «La sentivo telefonicamente, stava benino. Fino a che un giorno, il 1 gennaio, mi ha chiamato e mi ha detto: non mi sento bene, sto soffocando. Io le ho detto di non preoccuparsi, di chiamare il dottore. All’una di quel giorno ho parlato con il medico e mi ha riferito che stava molto meglio rispetto alla mattina. Poi improvvisamente si è aggravata e io non sono più riuscita a sentirla. Quindi sono andata in ospedale per avere notizie, mi hanno raccontato che avevano dovuto intubarla per necessità e che siccome non era positiva al Covid sarebbe stata trasferita a Termoli o a Isernia». La mattina dopo ai familiari è stata comunicata la destinazione, probabilmente Termoli. «Però bisognava aspettare l’esito del tampone». Esito che nel tardo pomeriggio era negativo, poi la doccia fredda col molecolare: positivo.
«Non abbiamo più potuto vederla. Ce l’hanno ridata in una bara chiusa, per un contagio avvenuto all’interno dell’ospedale. Credo che sia il minimo spiegare almeno come sia avvenuto e spiegare cosa non è stato rispettato». È questo, spiega Marilena, che insieme a suo padre e suo fratello chiedono alla magistratura di sapere: come è stato possibile contagiarsi in ospedale, «perché qualcosa non ha funzionato». Hanno presentato denuncia dopo il tampone positivo.
Niente visite dal 21 dicembre in reparto, Marilena alla madre portava il cambio di biancheria e lo lasciava al personale. «Solo una volta l’ho vista da lontano e sono riuscita a salutarla con la mano…». Dopo la telefonata del 1 gennaio in cui diceva di sentirsi soffocare, l’aveva richiamata: il peggio è passato, l’aveva rassicurata. In poche ore, il giorno di Capodanno, le cose invece sono precipitate. «Appena saputo che era positiva ho chiesto come era possibile, mi hanno risposto che non sapevano. E anche il giorno prima: non sappiamo perché si è aggravata. Fa male, fa male sapere che è successo dove si va per stare meglio…», la voce le si incrina. «Fa male ricordare che per tanti mesi si è protetta non uscendo e che anche noi siamo stati molto attenti, fa male…».
Suo padre resta in silenzio. Non riesce a raccontare, gli occhi lucidi però dicono tutto. Anche la sua immensa dignità. Uno sguardo a cui dovrebbe essere impossibile per tutti sfuggire. Soprattutto a chi deve a questa famiglia, e alle tante altre coinvolte, semplicemente risposte rispettose e responsabilità.

rita iacobucci

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